RITIRO ON LINE                                                                                                   
maggio 2018

                                                                                                                                                                                                                                                

 

Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso.   Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi. 

 

Ho sperato, ho sperato

nel Signore,

ed egli su di me si è chinato,

ha dato ascolto al mio grido.

Mi ha tratto dal fango

della palude;

ha stabilito i miei piedi

sulla roccia,

ha reso sicuri i miei passi.

Mi ha messo sulla bocca

un canto nuovo,

una lode al nostro Dio.

Allora ho detto:

«Ecco, io vengo.

Nel rotolo del libro

su di me è scritto

di fare la tua volontà:

mio Dio, questo io desidero;

la tua legge è nel mio intimo».

 

 Ho annunciato la tua giustizia

nella grande assemblea.

Non ho nascosto la tua giustizia

dentro il mio cuore,

la tua verità e la tua salvezza

ho proclamato.

Non ho celato il tuo amore

e la tua fedeltà.

Esultino e gioiscano in te

quelli che ti cercano;

dicano sempre:

«Il Signore è grande!»

quelli che amano

la tua salvezza.

Tu sei mio aiuto

e mio liberatore:

mio Dio, non tardare.

 

(dal Salmo 40)

 

 Veni, Sancte Spiritus, Veni, per Mariam.

 

 

 

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Le ore del giorno scorrono rapide. Impossibile fermarle.

Il credente però le può «redimere».

 

Continuano le lectio liberamente tratte da una riflessione di don Davide Caldirola, sacerdote della Chiesa di Milano.

Buona meditazione e buona preghiera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LECTIO Apro la Parola di Dio e leggo in piedi il brano che mi viene proposto.  (Matteo 9,9-13)

 

9 Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10 Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. 11 Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12 Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico,  ma i malati. 13 Andate dunque e imparate che cosa significhi: "Misericordia io voglio e non sacrificio". Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MEDITATIO   Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente. Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona più sacra e più lunga del nostro Ritiro On Line: il grande silenzio !  Il protagonista è lo Spirito Santo.

 Il modo migliore per assaporare un brano delle Scritture è accoglierlo in noi come un cibo nutriente per il nostro spirito, è avere la certezza che sia Dio a volerci parlare per farci entrare nelle dimensioni del suo disegno di amore e di salvezza. Se ascoltiamo attentamente la Parola potremo entrare in un rapporto vivo con il Padre, per lasciarci plasmare dal suo stesso "cuore".

 

 

“Quel giorno” Gesù vide un uomo: l'ora della chiamata

(Matteo 9,9-13)

 

 

L'ora della chiamata

Difficile parlare delle giornate di Gesù, perché entriamo nel mistero di momenti densi, colmi di avvenimenti e di incontri.

Sicuramente un gesto che Gesù ha compiuto più volte nella pienezza e nella maturità dei suoi giorni è stato quello di chiamare a sé le persone. Non solo le folle che domandavano una parola e un segno; più da vicino ha chiamato qualche amico con un'intenzione speciale, ha letto nella profondità del cuore di qualcuno, e in maniera imprevedibile e gratuita l'ha voluto vicino a sé nel cammino verso Gerusalemme. Le ore del giorno di Gesù sono state spesso «le ore della chiamata».

Tra le tante storie di vocazione ne analizziamo una in particolare: quella del pubblicano Matteo. È lui stesso a raccontarcela con sobrietà, e a legarla a una festa, perché ogni chiamata è chiamata alla gioia, ogni vocazione è una festa.

 

Poche parole per raccontarsi

La discrezione è una virtù rara. Così come la capacità di misurare le parole, di non moltiplicarle inutilmente. Nelle nostre conversazioni c'è un argomento che ci attira irresistibilmente: noi stessi. Quando iniziamo a parlare di noi stessi  ci infervoriamo a tal punto da perdere il senso del tempo.

Matteo invece usa una frase sola per dire di sé. Liquida in una trentina di parole, anche meno, l'istante decisivo della sua vita, con una sobrietà e una discrezione che non possono non lasciarci ammirati. Sarà tornato mille volte col pensiero a quell'attimo in cui tutto è cambiato, ma non ci tiene più di quel tanto a raccontarlo, a dilungarsi nei particolari. È forse da parte sua un modo per trattenere e conservare nel cuore l'irripetibile grazia della chiamata, per lasciare nell'anima pensieri troppo intimi da poter essere spiegati. Matteo col suo silenzio dice molto di più che con le sue parole: insegna a non disperdere nelle chiacchiere il ricordo dei giorni del miracolo e della meraviglia, invita a custodire nel silenzio i tesori più veri dell'esistenza.

 

Una chiamata sorprendente

Matteo è il primo discepolo ad essere chiamato da solo, e non assieme ad un altro. Già da questo primo tratto viene evidenziata una sua differenza, una sua diversità all'interno del gruppo dei discepoli. E forse anche una sua certa solitudine. Certamente, il mestiere che fa non lo pone nella condizione di avere molti amici, e neppure di poter frequentare troppo spesso la sinagoga. È, come tutti i gabellieri, un ricco isolato, con una cerchia di amici magari ampia, ma forse non proprio del tutto affidabile. Si sa come vanno le amicizie che girano attorno ai soldi, alla ricchezza ... Matteo è chiamato nonostante non possa sperimentare il sostegno di una comunità. È chiamato a sorpresa, nel mezzo della sua solitudine.

Questo invito di Gesù, tra l'altro, spiazza completamente le attese e le previsioni della gente. L'arrivo di un quinto discepolo nella comunità di un rabbì (nel capitolo 4 Matteo aveva narrato la chiamata dei primi quattro) era ritenuto indispensabile per formare un primo nucleo stabile, un primo gruppo, una piccola scuola indipendente. Probabilmente erano altri i nomi gettonati, che correvano di bocca in bocca: c'erano a Cafarnao uomini pii, o semplicemente persone amiche dei primi quattro. Matteo esce in maniera del tutto imprevista, come quando in una competizione sportiva si afferma uno sconosciuto, che spiazza tutti i pronostici.

I primi Quattro saranno rimasti delusi, che non pensavano e non volevano, probabilmente, un compagno così. Si trovano tra i piedi un ospite indesiderato, che non fa parte della loro cerchia, che forse hanno giudicato con distacco se non addirittura con astio nei momenti in cui l'hanno incontrato. Ma Gesù non sembra molto interessato a creare un gruppo sociologicamente e affettivamente compatto: segue una sua logica, comprensibile a lui solo. I suoi criteri di chiamata non corrispondono a quelli dell'uomo comune. Di questa chiamata proviamo ora a vedere qualche rapidissimo elemento che la narrazione ci consegna.

 

Un uomo

Gesù vede anzitutto un uomo. Per lui Matteo non è un ladro o un pubblicano o un amico dei Romani. Non si identifica col mestiere o la funzione che esercita. È un uomo. Gesù ridà dignità a Matteo, vede in lui una creatura di Dio, riconosce la scintilla dell'umanità ancora presente oltre la cenere e la polvere. È straordinaria questa capacità di Gesù di sfondare come se niente fosse tutte le convenzioni, gli schemi e i pregiudizi della gente. Strappa con forza tutte le etichette che per anni i concittadini di Matteo gli hanno appiccicato addosso. Matteo è - semplicemente - un uomo; certo, con tutte le sue fragilità, con la sua storia di peccato, ma, insieme, con tutte le sue potenzialità e le sue ricchezze.

 

Di nome Matteo.

È singolare che nello stesso episodio narrato da Marco e Luca, Matteo venga chiamato Levi, col suo probabile nome d'origine: Levi il figlio di Alfeo. Un nome solenne, il nome dei sacerdoti che nella tradizione di Israele potevano provenire solo dalla tribù di Levi. Il nome di un uomo che per posizione e per ruolo deve stare vicino a Dio, il nome dell'uomo del tempio. Matteo vicino a Dio non si sente molto. La sua vita di pubblicano (e quindi di peccatore) lo pone molto distante, al di fuori del tempio e di una sinagoga che  probabilmente non frequenta più da un pezzo. Allora non chiama se stesso «Levi», ma Matteo, un nome che significa «dono di Dio». Gesù gli ha fatto scoprire il suo nome, la sua vocazione. Matteo capisce che così com'è, prima ancora di essere diventato «bravo discepolo», è già se stesso, Matteo, dono di Dio. Forse era portato a non crederlo, a guardare a se stesso con indifferenza se non con disprezzo; forse ha patito lo scarto tra il suo nome e la sua vita. Ora si accorge di ciò che è, si guarda con un affetto nuovo, si scopre degno dell'attenzione di un altro non per i suoi meriti o le sue opere, ma per la forza che il suo stesso nome sprigiona, per ciò che è nel profondo. Non è Levi, il sacerdote: è Matteo, l'uomo, il dono di Dio. E tanto basta perché qualcuno, perché il Signore, lo possa scrutare con affetto e invitare a seguirlo.

 

Alzarsi, sedersi, sdraiarsi

Nel Vangelo di Matteo, immediatamente prima di questo episodio, c'è stata la descrizione della guarigione del paralitico. Il procedimento è lo stesso. Un uomo si alza, risorge, ritrova dignità, coraggio, è capace di tornare dai suoi, di ritrovare casa e pace. È utile al proposito gettare uno sguardo anche al brano parallelo di Marco, nella cui descrizione troviamo un dinamismo particolare, che ci illumina sul passaggio che sta compiendo Matteo nel rispondere di sì alla grazia del Signore . Il gabelliere è seduto al banco delle imposte; una posizione che indica non solo il suo stato fisico, ma ben più a fondo quello interiore. Matteo sembra essere un uomo fermo, immobile, appagato. È un uomo che ha raggiunto una sicurezza, una posizione da cui è difficile scalzarlo. Si trova nella situazione che spesso noi rimproveriamo ai nostri politici, quando diciamo che sono «attaccati alla poltrona», in una situazione di privilegio e di comodo che dimentica ogni forma di servizio e di approccio positivo nei confronti degli altri.

Il passaggio di Gesù fa di Matteo un uomo che si alza, che «risorge», che ritrova la dignità di chi sta in piedi, disposto a lasciarsi scomodare. È un principio attivo di vita quello che raggiunge Matteo, è un inaspettato dono che gli permette di rimettere in discussione quanto lui è stato finora, che lo rialza da una condizione di morte interiore, da una vita seduta, incapace di slanci e di bene. Certo, per far questo deve «lasciare la poltrona», i soldi, i privilegi; deve perdere la posizione sociale raggiunta, entrare in un'ottica e in una logica  diametralmente opposte a quelle finora seguite. Si vede che ne vale proprio la pena, a giudicare dalla prontezza con cui risponde alla chiamata.

In più c'è la sorpresa. Gesù fa alzare Matteo per condurlo a sdraiarsi a mensa, a fare festa. Diventerà capace di seguirlo solo dopo avere imparato a fare festa. È forte, in questo senso, il contrasto con la figura dei farisei, che nel Vangelo difficilmente sono capaci di fare festa, di rallegrarsi, e restano tristemente schiavi delle proprie recriminazioni, delle proprie paure. Non li vediamo mai sorridere, mai godersi un po' la vita, incapaci di vedere il bene che c'è, di essere contenti per la gioia di un altro. Gesù non li apprezza, non li stima forse anche per questo: perché non sanno festeggiare, perché non riconoscono l'importanza della gioia. Sono schiavi della cupa religione del precetto, della norma, non si lasciano mai andare, non bevono il vino nuovo del Vangelo. Un buon discepolo - al contrario - sa bene cosa significhi stare a mensa col suo Maestro: una mensa dove trovano posto tutti, dove nessuno è straniero, dove c'è spazio anche per chi è stato a lungo lontano, anche per chi pensava di essere fuori tempo massimo.

 

Un quadro

Una delle più belle esegesi a questa pagina di Vangelo l'ha data un pittore, il Caravaggio. Anziché al banco delle imposte la scena è ambientata in una taverna, in una bettola. Gesù irrompe in scena dall'alto dell'osteria, aprendo una porta e lasciando entrare una lama di luce che segue la direzione del suo dito, con cui indica e chiama Matteo.

 

L’ interpretazione “classica”

L'apparizione del Maestro coincide con  un'illuminazione che scuote e trasforma il  gabelliere,  che, stordito, indica incredulo se stesso:

«Ma sono proprio io? Cerchi proprio me?», sembra dire Matteo. Questa scena di grazia è resa ancora più intensamente dai particolari di contorno. Vale la pena ricordarne uno. Tra i personaggi che nella taverna stanno contando i soldi, ce  n'è  uno che rimane completamente in ombra. Non si riesce a scorgerne i lineamenti, non se ne vede il volto, perché chino sul tavolaccio a raccogliere e contare i soldi. Non si è nemmeno accorto dell'ingresso di Gesù, o più semplicemente ne ha approfittato per realizzare qualche misero guadagno per sé, perdendo l'occasione della vita, quella di incontrare colui che poteva toglierlo dalla condizione di abiezione e di miseria umana.

 

Un’altra interpretazione molto diversa e molto interessante

            Forse, secondo altre interpretazioni, il Matteo non sarebbe il signore anziano con la barba rossiccia e il cappello intesta, più o meno al centro del tavolo, che con l’indice della sua mano sinistra sembrerebbe dire: “Chi? Io?”.

            Tempo fa Papa Francesco rispondendo a un intervistatore a proposito della vocazione di Matteo, disse:

Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo». […] «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io: «Un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi».

 

È interessante che il papa abbia detto di essere colpito dal gesto di Matteo che «afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me!», perché questo fatto lascia pensare che ritenesse – diversamente dai più – che Matteo non sia il signore con la barba rossa, illuminato tra il giovane con la piuma e il vecchio con gli occhiali, ma il giovane a capotavola, in braghe d’oro, la testa china, le braccia a difendere il suo gruzzolo. 

«Matteo avido di denaro» può essere soltanto il giovane sul vertice opposto a Cristo. Il vecchio al centro non trattiene le monete. La dialettica delle mani lo indica chiaramente: chi “afferra i soldi” è il ragazzo. Il capotavola e Cristo sono i poli dialettici della scena.

Un esperto, De Marco, ha scritto:

Caravaggio mostra la vocazione, ma la chiamata di Cristo non ha ancora raggiunto il suo destinatario… il Matteo di Caravaggio, al momento della chiamata, non è più il peccatore, ma non è ancora l’apostolo… La “forza di gravità” del peccato lo fa rimanere fermo e rende il suo atteggiamento un elemento ritardante, grazie al quale Caravaggio riempie il vuoto minimale tra il “seguimi” e l’”allora si alzò”.

 

Un’altra osservazione

In questa, come in ogni sua opera, il Caravaggio sostituisce ad una visione agiografica delle storie bibliche una visione attuale e per ciò stessa viva. Mentre Gesù e Pietro sono vestiti con abiti che ricordano il passato, tutti e cinque i personaggi seduti alla tavola sono ritratti in abiti «moderni». Questo permette di cogliere come la «storia» evangelica interpelli drammaticamente il presente, dove la parola «dramma», nel suo significato etimologico, non vuol dire tanto «tragedia», quanto «azione», «scelta», «decisione».

 

La vocazione come dramma.

La realtà della «vocazione come dramma». Eppure rimane vero anche l'altro significato, quello più comune del termine. C'è come un «dolore della vocazione» che non va dimenticato, c'è una ferita che si apre in ogni «sì» detto col cuore. La grazia della vocazione e la risposta alla chiamata non coincidono minimamente con la tranquillità dell'esistenza, con l'apertura di un credito illimitato che permette di vivere sereni. Vale il contrario: la chiamata è sempre una «grazia a caro prezzo», comporta una decisione rischiosa, sempre al di là della propria capacità di mantenervi fede. Comporta un'invasione, un'intrusione di Dio nella propria vita dalla quale, nel bene e nel male, non ci si libera.

Il non potersi più liberare di Dio: ecco l'inquietudine angosciosa di ogni vita  cristiana.  Chi per  una  volta si è impegnato con lui, chi si è lasciato sedurre da lui una volta, non se ne libera più, come un bambino non si libera della madre, come un uomo non si libera della donna che ama. Colui al quale egli ha parlato una volta, non lo può più dimenticare, ed egli continua ad accompagnarlo. E questa continuata vicinanza di Dio è troppo grande per l'uomo, è al di sopra delle sue forze, ed egli pensa talvolta: non mi fossi mai messo a disposizione di Dio. È troppo pesante per me, distrugge la pace della mia anima e la mia fedeltà.

Ma proprio a questo punto la vicinanza di Dio, la fedeltà di Dio, la forza di Dio diventa per noi fonte di consolazione e di aiuto, allora soltanto conosciamo in modo giusto Dio e il senso della nostra vita cristiana. Non liberarsi più di Dio: ciò significa molta angoscia, molto scoraggiamento, molto turbamento, ma significa anche non essere più senza Dio, nel bene e nel male. Significa Dio-con-noi su tutte le nostre strade, nella fede e nel peccato, nella persecuzione, nello scherno e nella morte. (Bonhoeffer)

 C'è di più. Il commento al quadro ci ricorda pure come «la storia evangelica interpelli il presente». Ogni volta in cui ascoltiamo un racconto di vocazione, non possiamo non tornare alla realtà della nostra chiamata, alla sua singolarità, ai misteriosi disegni e progetti di Dio sulla nostra vita. Come mai sono state «le nostre mani» ad essere toccate e non quelle del vicino «che contava i soldi con noi», che lavorava con noi, tanto prossimo da poter essere confuso con noi?

 

 La parola per la mia vita - Parlare di sé

All'inizio della lectio ci siamo fermati un istante ad apprezzare la sobrietà con cui Matteo descrive la propria chiamata, l'istante decisivo della sua stessa vita.

Sappiamo quanto sia difficile parlare di noi stessi, raccontare qualcosa di vero della nostra vita senza lasciarsi travolgere da un oceano di parole inutili, o - al contrario - senza chiuderci in mutismi imbarazzati, che lasciano sempre l'altro al di fuori della nostra realtà profonda. La capacità di raccontarsi è un dono che va chiesto al Signore. Perché spesso mentre parlo e mi racconto, chiarisco a me stesso i lati oscuri della mia vita, perché mentre accetto la fatica di consegnare ad un altro le mie passioni e le mie ferite, senza falsità, senza reticenze, gli offro la possibilità di accompagnarmi e forse anche di guarirmi. È un rischio serio, perché quando ho messo la mia fragilità nelle mani di qualcuno sono ancora più vulnerabile, più fragile. Ma se l'altro mi ama davvero, mi vorrà ancora più bene per la fiducia che ho riposto in lui, saprà guidarmi con pazienza, custodirmi con affetto e discrezione, sostenermi nella fatica e nei momenti di avversità e di angoscia, di confusione e di pianto.

 

Un amore inesplicabile

Quando pensiamo a una vocazione, alla nostra vocazione, abbiamo la certezza di trovarci di fronte ad un amore sovrabbondante, che può essere definito  «inesplicabile». Cosa può voler dire parlare di una vocazione e di un amore inesplicabili?

«Non me lo so spiegare». C'è una parte, c'è qualcosa in questo amore che comprendo, che capisco. So che è vero. So che è tutto per me. Non ho dubbi su questo. So che un amore così io l'ho incontrato, mi ha raggiunto, è entrato a trasformare la mia vita. Eppure non me lo so spiegare. Questo inesplicabile raccoglie le domande meravigliate di chi si accorge di aver detto sì a qualcosa, a qualcuno più grande di lui. Sono domande che sicuramente ci siamo fatti molte volte: quando è successo? Come mai proprio a me? Perché il Signore ha voluto così? Cosa mi chiede il Signore attraverso questo dono? Come potrò rispondere?

Rispetto a tutte queste domande la nostra risposta è parziale, incerta, insicura. Non me lo so spiegare, appunto. Nemmeno io che sono il protagonista di questa vicenda, il fortunato destinatario di questa chiamata, so rendere conto a me stesso del perché è capitato così. Pensiamo a Matteo, preso alla sprovvista al banco delle imposte. Ma pensiamo anche a Maria nell'Annunciazione (Lc 1,26-38). «Come è possibile?».

È una domanda che Maria rivolge all'angelo, ma in realtà la sta rivolgendo a se stessa. È una domanda che trattiene tutto il suo turbamento. Maria «comprende » qualcosa di questa parola, se non altro perché se la trova dentro, nel corpo, nel grembo. Ma non sa spiegarsela. E neppure l'angelo, a pensarci bene, riesce a spiegare: rimanda soltanto a parole, a termini, a persone che sfuggono ad ogni possibile spiegazione: lo Spirito Santo, l'ombra dell'Altissimo. Si può capire qualcosa, ma non si può spiegare quasi nulla.

«Non lo so spiegare». Questo amore io non lo so spiegare. L'apostolo stesso non ce la farà mai a spiegare, a di-spiegare tutto l'amore di cui si sente oggetto. L’amore di Dio lo si può raccontare, se ne può parlare, lo si può testimoniare. Ma fino in fondo resterà mistero, e anche la testimonianza più cristallina che noi offriremo nella vita sarà soltanto un balbettare insicuro, qualcosa che fino in fondo non riesce ad esaurire la bellezza e il mistero.

 

La vocazione a stare insieme

Dio mi chiama perché non è bene che l'uomo sia solo.

Non possiamo rileggere la chiamata di Matteo senza notare che questa vocazione lo tira fuori dalla solitudine. Fin dall'inizio capita così: la sua casa si riempie di gente che entra e fa festa, il banchetto preparato per Gesù diviene la possibilità per tutti i pubblicani e i peccatori di uscire allo scoperto, di rompere il loro isolamento, di accostarsi alla grazia e alla gioia dello stare insieme. Dovremmo sempre far memoria e festeggiare le date importanti della nostra vita, collegare con insistenza tra loro vocazione e festa. Sempre nel Vangelo di Matteo troviamo le parabole del tesoro e della perla. In esse l'attenzione non è mai centrata sulla difficoltà o la generosità della rinuncia, ma sulla gioia dell'aver trovato. L'ora della pienezza del giorno, l'ora della chiamata, è sempre da richiamare e custodire con gioia nella nostra memoria.

Anche oggi il dono di una vocazione, di qualunque vocazione, non solo al matrimonio, ma anche alla consacrazione religiosa o al sacerdozio o a far parte di un istituto secolare, è dono che porta ad uscire dalla solitudine, dall'isolamento, perché «non è bene che l'uomo sia solo». Ci si consacra, si segue il Signore, per  incontrarlo nei suoi affetti più veri, per dedicarsi a lui con tutto il cuore, nei modi e attraverso  le scelte  che il Signore  e la sapienza della Chiesa hanno pensato per noi. Anche per questo accettare una chiamata è sempre un rischio; ma è il «rischio di vivere», di essere pienamente uomini e donne secondo la volontà del Signore, che non ci ha messi nel mondo col compito di fuggirlo o di difenderci da esso, ma con la grazia di poterlo amare, servire e condurre a lui.

 

Dono di Dio, così come sono

Un'ultima considerazione brevissima sul nome Matteo, “dono di Dio”. È importante non dimenticare mai di essere dono di Dio, in mezzo alle contraddizioni e alle ferite della vita, di esserlo per il solo fatto di esistere, di abitare questo mondo. La coscienza della ricchezza della chiamata cresce insieme alla consapevolezza della nostra povertà, ma anche insieme alla certezza del partecipare alle sorti del mondo con la grazia di essere dono per l'umanità, regalo di Dio al mondo, capolavoro irripetibile uscito dalle mani del Creatore.

 

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ORATIO Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.

Mi hai sedotto, Signore,

e io mi sono lasciato sedurre;

mi hai fatto forza

e hai prevalso.

Sono diventato oggetto di

scherno ogni giorno;

ognuno si fa beffe di me.

Quando parlo, devo gridare,

devo proclamare:

“Violenza! Oppressione!”

Così la parola del Signore

è diventata per me

 

 motivo di obbrobrio

e di scherno ogni giorno

 

Mi dicevo:

 

«Non penserò più a lui,

 

non parlerò più in suo nome!».

 

Ma nel mio cuore c'era

 

come un fuoco ardente

 

chiuso nelle mie ossa;

 

mi sforzavo di contenerlo

 

ma non potevo. 

 

(Geremia 20,7-9)

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTEMPLATIO     Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù.  È Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!

 

Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio Padre Onnipotente,  

nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.  Amen

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ACTIO     Mi impegno a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.

Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!  Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.

Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da Gesù: Padre Nostro...

Arrivederci!  

 

 

(spunti liberamente tratti da una lectio di don Davide Caldirola, della Chiesa di Milano) 

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