Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso. Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi.
Ho sperato, ho sperato
nel Signore,
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto dal fango
della palude;
ha stabilito i miei piedi
sulla roccia,
ha reso sicuri i miei passi.
Mi ha messo sulla bocca
un canto nuovo,
una lode al nostro Dio.
Allora ho detto:
«Ecco, io vengo.
Nel rotolo del libro
su di me è scritto
di fare la tua volontà:
mio Dio, questo io desidero;
la tua legge è nel mio intimo».
Ho
annunciato la tua giustizia
nella grande assemblea.
Non ho nascosto la tua giustizia
dentro il mio cuore,
la tua verità e la tua salvezza
ho proclamato.
Non ho celato il tuo amore
e la tua fedeltà.
Esultino e gioiscano in te
quelli che ti cercano;
dicano sempre:
«Il Signore è grande!»
quelli che amano
la tua salvezza.
Tu sei mio aiuto
e mio liberatore:
mio Dio, non tardare.
(dal Salmo 40)
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Le ore del giorno scorrono rapide. Impossibile fermarle.
Il credente però le può «redimere».
Continuano le lectio liberamente tratte da una riflessione di don Davide
Caldirola, sacerdote della Chiesa di Milano.
Buona meditazione e buona preghiera.
LECTIO Apro
la Parola di Dio e leggo in piedi il brano che mi viene proposto.
(Matteo
9,9-13)
9
Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato
Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
MEDITATIO
Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente.
Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona
più sacra e più lunga del nostro Ritiro On Line:
il grande
silenzio ! Il protagonista è lo Spirito
Santo.
Il
modo migliore per assaporare un brano delle Scritture è accoglierlo in noi
come un cibo nutriente per il nostro spirito, è avere la certezza che sia
Dio a volerci parlare per farci entrare nelle dimensioni del suo disegno di
amore e di salvezza. Se ascoltiamo attentamente la Parola potremo entrare in
un rapporto vivo con il Padre, per lasciarci plasmare dal suo stesso
"cuore".
“Quel giorno” Gesù vide un uomo: l'ora della chiamata
(Matteo 9,9-13)
L'ora della chiamata
Difficile parlare delle giornate di Gesù, perché entriamo nel mistero di momenti densi, colmi di avvenimenti e di incontri.
Sicuramente un gesto che Gesù ha compiuto più volte nella pienezza e nella
maturità dei suoi giorni è stato quello di chiamare a sé le persone. Non solo le
folle che domandavano una parola e un segno; più da vicino ha chiamato qualche
amico con un'intenzione speciale, ha letto nella profondità del cuore di
qualcuno, e in maniera imprevedibile e gratuita l'ha voluto vicino a sé nel
cammino verso Gerusalemme. Le ore del giorno di Gesù sono state spesso «le ore
della chiamata».
Tra le tante storie di vocazione ne analizziamo una in particolare: quella del
pubblicano Matteo. È lui stesso a raccontarcela con sobrietà, e a legarla a una
festa, perché ogni chiamata è chiamata alla gioia, ogni vocazione è una festa.
Poche parole per raccontarsi
La discrezione è una virtù rara. Così come la capacità di misurare le parole, di
non moltiplicarle inutilmente. Nelle nostre conversazioni c'è un argomento che
ci attira irresistibilmente: noi stessi. Quando iniziamo a parlare di noi stessi
ci infervoriamo a tal punto da perdere
il senso del tempo.
Matteo invece usa una frase sola per dire di sé. Liquida in una trentina di
parole, anche meno, l'istante decisivo della sua vita, con una sobrietà e una
discrezione che non possono non lasciarci ammirati. Sarà tornato mille volte col
pensiero a quell'attimo in cui tutto è cambiato, ma non ci tiene più di quel
tanto a raccontarlo, a dilungarsi nei particolari. È forse da parte sua un modo
per trattenere e conservare nel cuore l'irripetibile grazia della chiamata, per
lasciare nell'anima pensieri troppo intimi da poter essere spiegati. Matteo col
suo silenzio dice molto di più che con le sue parole: insegna a non disperdere
nelle chiacchiere il ricordo dei giorni del miracolo e della meraviglia, invita
a custodire nel silenzio i tesori più veri dell'esistenza.
Una chiamata sorprendente
Matteo è il primo discepolo ad essere chiamato da solo, e non assieme ad un
altro. Già da questo primo tratto viene evidenziata una sua differenza, una sua
diversità all'interno del gruppo dei discepoli. E forse anche una sua certa
solitudine. Certamente, il mestiere che fa non lo pone nella condizione di avere
molti amici, e neppure di poter frequentare troppo spesso la sinagoga. È, come
tutti i gabellieri, un ricco isolato, con una cerchia di amici magari ampia, ma
forse non proprio del tutto affidabile. Si sa come vanno le amicizie che girano
attorno ai soldi, alla ricchezza ... Matteo è chiamato nonostante non possa
sperimentare il sostegno di una comunità. È chiamato a sorpresa, nel mezzo della
sua solitudine.
Questo invito di Gesù, tra l'altro, spiazza completamente le attese e le
previsioni della gente. L'arrivo di un quinto discepolo nella comunità di un
rabbì (nel capitolo 4 Matteo aveva narrato la chiamata dei primi quattro) era
ritenuto indispensabile per formare un primo nucleo stabile, un primo gruppo,
una piccola scuola indipendente. Probabilmente erano altri i nomi gettonati, che
correvano di bocca in bocca: c'erano a Cafarnao uomini pii, o semplicemente
persone amiche dei primi quattro. Matteo esce in maniera del tutto imprevista,
come quando in una competizione sportiva si afferma uno sconosciuto, che spiazza
tutti i pronostici.
I primi Quattro saranno rimasti delusi, che non pensavano e non volevano,
probabilmente, un compagno così. Si trovano tra i piedi un ospite indesiderato,
che non fa parte della loro cerchia, che forse hanno giudicato con distacco se
non addirittura con astio nei momenti in cui l'hanno incontrato. Ma Gesù non
sembra molto interessato a creare un gruppo sociologicamente e affettivamente
compatto: segue una sua logica, comprensibile a lui solo. I suoi criteri di
chiamata non corrispondono a quelli dell'uomo comune. Di questa chiamata
proviamo ora a vedere qualche rapidissimo elemento che la narrazione ci
consegna.
Un uomo
Gesù vede anzitutto un uomo. Per lui Matteo non è un ladro o un pubblicano o un
amico dei Romani. Non si identifica col mestiere o la funzione che esercita. È
un uomo. Gesù ridà dignità a Matteo, vede in lui una creatura di Dio, riconosce
la scintilla dell'umanità ancora presente oltre la cenere e la polvere. È
straordinaria questa capacità di Gesù di sfondare come se niente fosse tutte le
convenzioni, gli schemi e i pregiudizi della gente. Strappa con forza tutte le
etichette che per anni i concittadini di Matteo gli hanno appiccicato addosso.
Matteo è - semplicemente - un uomo; certo, con tutte le sue fragilità, con la
sua storia di peccato, ma, insieme, con tutte le sue potenzialità e le sue
ricchezze.
Di nome Matteo.
È singolare che nello stesso episodio narrato da Marco e Luca, Matteo venga
chiamato Levi, col suo probabile nome d'origine: Levi il figlio di Alfeo. Un
nome solenne, il nome dei sacerdoti che nella tradizione di Israele potevano
provenire solo dalla tribù di Levi. Il nome di un uomo che per posizione e per
ruolo deve stare vicino a Dio, il nome dell'uomo del tempio. Matteo vicino a Dio
non si sente molto. La sua vita di pubblicano (e quindi di peccatore) lo pone
molto distante, al di fuori del tempio e di una sinagoga che
probabilmente non frequenta più da un pezzo. Allora non chiama se stesso
«Levi», ma Matteo, un nome che significa «dono di Dio». Gesù gli ha fatto
scoprire il suo nome, la sua vocazione. Matteo capisce che così com'è, prima
ancora di essere diventato «bravo discepolo», è già se stesso, Matteo, dono di
Dio. Forse era portato a non crederlo, a guardare a se stesso con indifferenza
se non con disprezzo; forse ha patito lo scarto tra il suo nome e la sua vita.
Ora si accorge di ciò che è, si guarda con un affetto nuovo, si scopre degno
dell'attenzione di un altro non per i suoi meriti o le sue opere, ma per la
forza che il suo stesso nome sprigiona, per ciò che è nel profondo. Non è Levi,
il sacerdote: è Matteo, l'uomo, il dono di Dio. E tanto basta perché qualcuno,
perché il Signore, lo possa scrutare con affetto e invitare a seguirlo.
Alzarsi, sedersi, sdraiarsi
Nel Vangelo di Matteo, immediatamente prima di questo episodio, c'è stata la
descrizione della guarigione del paralitico. Il procedimento è lo stesso. Un
uomo si alza, risorge, ritrova dignità, coraggio, è capace di tornare dai suoi,
di ritrovare casa e pace. È utile al proposito gettare uno sguardo anche al
brano parallelo di Marco, nella cui descrizione troviamo un dinamismo
particolare, che ci illumina sul passaggio che sta compiendo Matteo nel
rispondere di sì alla grazia del Signore . Il gabelliere è seduto al banco delle
imposte; una posizione che indica non solo il suo stato fisico, ma ben più a
fondo quello interiore. Matteo sembra essere un uomo fermo, immobile, appagato.
È un uomo che ha raggiunto una sicurezza, una posizione da cui è difficile
scalzarlo. Si trova nella situazione che spesso noi rimproveriamo ai nostri
politici, quando diciamo che sono «attaccati alla poltrona», in una situazione
di privilegio e di comodo che dimentica ogni forma di servizio e di approccio
positivo nei confronti degli altri.
Il passaggio di Gesù fa di Matteo un uomo che si alza, che «risorge», che
ritrova la dignità di chi sta in piedi, disposto a lasciarsi scomodare. È un
principio attivo di vita quello che raggiunge Matteo, è un inaspettato dono che
gli permette di rimettere in discussione quanto lui è stato finora, che lo
rialza da una condizione di morte interiore, da una vita seduta, incapace di
slanci e di bene. Certo, per far questo deve «lasciare la poltrona», i soldi, i
privilegi; deve perdere la posizione sociale raggiunta, entrare in un'ottica e
in una logica diametralmente opposte a
quelle finora seguite. Si vede che ne vale proprio la pena, a giudicare dalla
prontezza con cui risponde alla chiamata.
In più c'è la sorpresa. Gesù fa alzare Matteo per condurlo a sdraiarsi a mensa,
a fare festa. Diventerà capace di seguirlo solo dopo avere imparato a fare
festa. È forte, in questo senso, il contrasto con la figura dei farisei, che nel
Vangelo difficilmente sono capaci di fare festa, di rallegrarsi, e restano
tristemente schiavi delle proprie recriminazioni, delle proprie paure. Non li
vediamo mai sorridere, mai godersi un po' la vita, incapaci di vedere il bene
che c'è, di essere contenti per la gioia di un altro. Gesù non li apprezza, non
li stima forse anche per questo: perché non sanno festeggiare, perché non
riconoscono l'importanza della gioia. Sono schiavi della cupa religione del
precetto, della norma, non si lasciano mai andare, non bevono il vino nuovo del
Vangelo. Un buon discepolo - al contrario - sa bene cosa significhi stare a
mensa col suo Maestro: una mensa dove trovano posto tutti, dove nessuno è
straniero, dove c'è spazio anche per chi è stato a lungo lontano, anche per chi
pensava di essere fuori tempo massimo.
Un quadro
Una delle più belle esegesi a questa pagina di Vangelo l'ha data un pittore, il
Caravaggio. Anziché al banco delle imposte la scena è ambientata in una taverna,
in una bettola. Gesù irrompe in scena dall'alto dell'osteria, aprendo una porta
e lasciando entrare una lama di luce che segue la direzione del suo dito, con
cui indica e chiama Matteo.
L’ interpretazione “classica”
L'apparizione del Maestro coincide con
un'illuminazione che scuote e trasforma il
gabelliere, che, stordito,
indica incredulo se stesso:
«Ma sono proprio io? Cerchi proprio me?», sembra dire Matteo. Questa scena di
grazia è resa ancora più intensamente dai particolari di contorno. Vale la pena
ricordarne uno. Tra i personaggi che nella taverna stanno contando i soldi, ce
n'è uno che rimane
completamente in ombra. Non si riesce a scorgerne i lineamenti, non se ne vede
il volto, perché chino sul tavolaccio a raccogliere e contare i soldi. Non si è
nemmeno accorto dell'ingresso di Gesù, o più semplicemente ne ha approfittato
per realizzare qualche misero guadagno per sé, perdendo l'occasione della vita,
quella di incontrare colui che poteva toglierlo dalla condizione di abiezione e
di miseria umana.
Un’altra interpretazione molto diversa e molto interessante
Forse, secondo altre interpretazioni, il Matteo non sarebbe il signore anziano
con la barba rossiccia e il cappello intesta, più o meno al centro del tavolo,
che con l’indice della sua mano sinistra sembrerebbe dire: “Chi? Io?”.
Tempo fa Papa Francesco rispondendo a un intervistatore a proposito della
vocazione di Matteo, disse:
Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come
Matteo». […] «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a
dire: “no, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io: «Un
peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi».
È interessante che il papa abbia detto di essere colpito dal gesto di Matteo che
«afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me!», perché questo fatto lascia
pensare che ritenesse – diversamente dai più – che Matteo non sia il signore con
la barba rossa, illuminato tra il giovane con la piuma e il vecchio con gli
occhiali, ma il giovane a capotavola, in braghe d’oro, la testa china, le
braccia a difendere il suo gruzzolo.
«Matteo avido di denaro» può essere soltanto il giovane sul vertice opposto a
Cristo. Il vecchio al centro non trattiene le monete. La dialettica delle mani
lo indica chiaramente: chi “afferra i soldi” è il ragazzo. Il capotavola e
Cristo sono i poli dialettici della scena.
Un esperto, De Marco, ha scritto:
Caravaggio mostra la vocazione, ma la chiamata di Cristo non
ha ancora raggiunto il suo destinatario… il Matteo di Caravaggio, al momento
della chiamata, non è più il peccatore, ma non è ancora l’apostolo… La “forza di
gravità” del peccato lo fa rimanere fermo e rende il suo atteggiamento un
elemento ritardante, grazie al quale Caravaggio riempie il vuoto minimale tra il
“seguimi” e l’”allora si alzò”.
Un’altra osservazione
In questa, come in ogni sua opera, il Caravaggio sostituisce ad una visione
agiografica delle storie bibliche una visione attuale e per ciò stessa viva.
Mentre Gesù e Pietro sono vestiti con abiti che ricordano il passato, tutti e
cinque i personaggi seduti alla tavola sono ritratti in abiti «moderni». Questo
permette di cogliere come la «storia» evangelica interpelli drammaticamente il
presente, dove la parola «dramma», nel suo significato etimologico, non vuol
dire tanto «tragedia», quanto «azione», «scelta», «decisione».
La vocazione come dramma.
La realtà della «vocazione come dramma». Eppure rimane vero anche l'altro
significato, quello più comune del termine. C'è come un «dolore della vocazione»
che non va dimenticato, c'è una ferita che si apre in ogni «sì» detto col cuore.
La grazia della vocazione e la risposta alla chiamata non coincidono minimamente
con la tranquillità dell'esistenza, con l'apertura di un credito illimitato che
permette di vivere sereni. Vale il contrario: la chiamata è sempre una «grazia a
caro prezzo», comporta una decisione rischiosa, sempre al di là della propria
capacità di mantenervi fede. Comporta un'invasione, un'intrusione di Dio nella
propria vita dalla quale, nel bene e nel male, non ci si libera.
Il non potersi più liberare di Dio: ecco l'inquietudine angosciosa di ogni vita
cristiana. Chi per
una volta si è impegnato con
lui, chi si è lasciato sedurre da lui una volta, non se ne libera più, come un
bambino non si libera della madre, come un uomo non si libera della donna che
ama. Colui al quale egli ha parlato una volta, non lo può più dimenticare, ed
egli continua ad accompagnarlo. E questa continuata vicinanza di Dio è troppo
grande per l'uomo, è al di sopra delle sue forze, ed egli pensa talvolta: non mi
fossi mai messo a disposizione di Dio. È troppo pesante per me, distrugge la
pace della mia anima e la mia fedeltà.
Ma proprio a questo punto la vicinanza di Dio, la fedeltà di Dio, la forza di
Dio diventa
per noi fonte di consolazione e di aiuto, allora soltanto conosciamo in modo
giusto Dio e il senso della nostra vita cristiana. Non liberarsi più di Dio: ciò
significa molta angoscia, molto scoraggiamento, molto turbamento, ma significa
anche non essere più senza Dio, nel bene e nel male. Significa Dio-con-noi su
tutte le nostre strade, nella fede e nel peccato, nella persecuzione, nello
scherno e nella morte. (Bonhoeffer)
All'inizio della lectio ci siamo fermati un istante ad apprezzare la sobrietà
con cui Matteo descrive la propria chiamata, l'istante decisivo della sua stessa
vita.
Sappiamo quanto sia difficile parlare di noi stessi, raccontare qualcosa di vero
della nostra vita senza lasciarsi travolgere da un oceano di parole inutili, o -
al contrario - senza chiuderci in mutismi imbarazzati, che lasciano sempre
l'altro al di fuori della nostra realtà profonda. La capacità di raccontarsi è
un dono che va chiesto al Signore. Perché spesso mentre parlo e mi racconto,
chiarisco a me stesso i lati oscuri della mia vita, perché mentre accetto la
fatica di consegnare ad un altro le mie passioni e le mie ferite, senza falsità,
senza reticenze, gli offro la possibilità di accompagnarmi e forse anche di
guarirmi. È un rischio serio, perché quando ho messo la mia fragilità nelle mani
di qualcuno sono ancora più vulnerabile, più fragile. Ma se l'altro mi ama
davvero, mi vorrà ancora più bene per la fiducia che ho riposto in lui, saprà
guidarmi con pazienza, custodirmi con affetto e discrezione, sostenermi nella
fatica e nei momenti di avversità e di angoscia, di confusione e di pianto.
Un amore inesplicabile
Quando pensiamo a una vocazione, alla nostra vocazione, abbiamo la certezza di
trovarci di fronte ad un amore sovrabbondante, che può essere definito
«inesplicabile». Cosa può voler dire parlare di una vocazione e di un
amore inesplicabili?
«Non me lo so spiegare». C'è una parte, c'è qualcosa in questo amore che
comprendo, che capisco. So che è vero. So che è tutto per me. Non ho dubbi su
questo. So che un amore così io l'ho incontrato, mi ha raggiunto, è entrato a
trasformare la mia vita. Eppure non me lo so spiegare. Questo inesplicabile
raccoglie le domande meravigliate di chi si accorge di aver detto sì a qualcosa,
a qualcuno più grande di lui. Sono domande che sicuramente ci siamo fatti molte
volte: quando è successo? Come mai proprio a me? Perché il Signore ha voluto
così? Cosa mi chiede il Signore attraverso questo dono? Come potrò rispondere?
Rispetto a tutte queste domande la nostra risposta è parziale, incerta,
insicura. Non me lo so spiegare, appunto. Nemmeno io che sono il protagonista di
questa vicenda, il fortunato destinatario di questa chiamata, so rendere conto a
me stesso del perché è capitato così. Pensiamo a Matteo, preso alla sprovvista
al banco delle imposte. Ma pensiamo anche a Maria nell'Annunciazione (Lc
1,26-38). «Come è possibile?».
È una domanda che Maria rivolge all'angelo, ma in realtà la sta rivolgendo a se
stessa. È una domanda che trattiene tutto il suo turbamento. Maria «comprende »
qualcosa di questa parola, se non altro perché se la trova dentro, nel corpo,
nel grembo. Ma non sa spiegarsela. E neppure l'angelo, a pensarci bene, riesce a
spiegare: rimanda soltanto a parole, a termini, a persone che sfuggono ad ogni
possibile spiegazione: lo Spirito Santo, l'ombra dell'Altissimo. Si può capire
qualcosa, ma non si può spiegare quasi nulla.
«Non
lo so spiegare». Questo amore io non lo so spiegare. L'apostolo stesso non ce la
farà mai a spiegare, a di-spiegare tutto l'amore di cui si sente oggetto.
L’amore di Dio lo si può raccontare, se ne può parlare, lo si può testimoniare.
Ma fino in fondo resterà mistero, e anche la testimonianza più cristallina che
noi offriremo nella vita sarà soltanto un balbettare insicuro, qualcosa che fino
in fondo non riesce ad esaurire la bellezza e il mistero.
La vocazione a stare insieme
Dio mi chiama perché non è bene che l'uomo sia solo.
Non possiamo rileggere la chiamata di Matteo senza notare che questa vocazione
lo tira fuori dalla solitudine. Fin dall'inizio capita così: la sua casa si
riempie di gente che entra e fa festa, il banchetto preparato per Gesù diviene
la possibilità per tutti i pubblicani e i peccatori di uscire allo scoperto, di
rompere il loro isolamento, di accostarsi alla grazia e alla gioia dello stare
insieme. Dovremmo sempre far memoria e festeggiare le date importanti della
nostra vita, collegare con insistenza tra loro vocazione e festa. Sempre nel
Vangelo di Matteo troviamo le parabole del tesoro e della perla. In esse
l'attenzione non è mai centrata sulla difficoltà o la generosità della rinuncia,
ma sulla gioia dell'aver trovato. L'ora della pienezza del giorno, l'ora della
chiamata, è sempre da richiamare e custodire con gioia nella nostra memoria.
Anche oggi il dono di una vocazione, di qualunque vocazione, non solo al
matrimonio, ma anche alla consacrazione religiosa o al sacerdozio o a far parte
di un istituto secolare, è dono che porta ad uscire dalla solitudine,
dall'isolamento, perché «non è bene che l'uomo sia solo». Ci si consacra, si
segue il Signore, per incontrarlo
nei suoi affetti più veri, per dedicarsi a lui con tutto il cuore, nei modi e
attraverso le scelte
che il Signore e la sapienza
della Chiesa hanno pensato per noi. Anche per questo accettare una chiamata è
sempre un rischio; ma è il «rischio di vivere», di essere pienamente uomini e
donne secondo la volontà del Signore, che non ci ha messi nel mondo col compito
di fuggirlo o di difenderci da esso, ma con la grazia di poterlo amare, servire
e condurre a lui.
Dono di Dio, così come sono
Un'ultima considerazione brevissima sul nome Matteo, “dono di Dio”. È importante
non dimenticare mai di essere dono di Dio, in mezzo alle contraddizioni e alle
ferite della vita, di esserlo per il solo fatto di esistere, di abitare questo
mondo. La coscienza della ricchezza della chiamata cresce insieme alla
consapevolezza della nostra povertà, ma anche insieme alla certezza del
partecipare alle sorti del mondo con la grazia di essere dono per l'umanità,
regalo di Dio al mondo, capolavoro irripetibile uscito dalle mani del Creatore.
ORATIO
Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla
meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa
preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti
gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano
ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.
Mi hai sedotto, Signore,
e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto forza
e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di
scherno ogni giorno;
ognuno si fa beffe di me.
Quando parlo, devo gridare,
devo proclamare:
“Violenza! Oppressione!” Così la parola del Signore
è diventata per me
|
e di scherno ogni giorno
Mi dicevo:
«Non penserò più a lui,
non parlerò più in suo nome!».
Ma nel mio cuore c'era
come un fuoco ardente
chiuso nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo
ma non potevo.
(Geremia 20,7-9)
|
CONTEMPLATIO
Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo
mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione
del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù. È
Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in
silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!
Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio Padre Onnipotente,
nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei
secoli. Amen
ACTIO
Mi impegno
a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.
Si compie concretamente un’azione che cambia il
cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!
Prego
con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.
Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da
Gesù: Padre Nostro...
Arrivederci!
(spunti liberamente tratti da una lectio di don Davide Caldirola, della Chiesa di Milano)
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