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luglio 2019

                                                                                                                                                                                                                                                

 

Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso.   Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi. 


 

Eccomi, Tu mi hai chiamato.

 Parla, o Signore: Il tuo servo ti ascolta”.

Veni, Sancte Spiritus, Veni, per Mariam.

 

 

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SCEGLIERE DI RISPONDERE.

 

Continuiamo a pregare seguendo alcune lectio liberamente tratte da riflessioni di don Giuseppe Pulcinelli, sacerdote della Chiesa di Roma.

Buona meditazione e buona preghiera.

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LECTIO Apro la Parola di Dio e leggo in piedi i brani che mi vengono proposti.

 

(ATTI 8)

1In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme; tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria. 2Uomini pii seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui. 3Saulo intanto cercava di distruggere la Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e donne e li faceva mettere in carcere.

4Quelli però che si erano dispersi andarono di luogo in luogo, annunciando la Parola.

 

(ATTI 9) 

1Saulo,  spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote 2e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via. 3E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo 4e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?». 5Rispose: «Chi sei, o Signore?». Ed egli: «Io sono Gesù, che tu perséguiti! 6Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». 7Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce, ma non vedendo nessuno. 8Saulo allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco. 9Per tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda.

10C’era a Damasco un discepolo di nome Anania. Il Signore in una visione gli disse: «Anania!». Rispose: «Eccomi, Signore!». 11E il Signore a lui: «Su, va’ nella strada chiamata Diritta e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco, sta pregando 12e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire a imporgli le mani perché recuperasse la vista». 13Rispose Anania: «Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti quanto male ha fatto ai tuoi fedeli a Gerusalemme. 14Inoltre, qui egli ha l’autorizzazione dei capi dei sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome». 15Ma il Signore gli disse: «Va’, perché egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele; 16e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». 17Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello, mi ha mandato a te il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada che percorrevi, perché tu riacquisti la vista e sia colmato di Spirito Santo». 18E subito gli caddero dagli occhi come delle squame e recuperò la vista. Si alzò e venne battezzato, 19poi prese cibo e le forze gli ritornarono.

Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, 20e subito nelle sinagoghe annunciava che Gesù è il Figlio di Dio. 21E tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Non è lui che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocavano questo nome ed era venuto qui precisamente per condurli in catene ai capi dei sacerdoti?».

 

 

 

« PAOLO,  IL PRIMO CHIAMATO DAL RISORTO »

Chi sei, o Signore?

 

“Il primo chiamato dal Risorto”. Questa meditazione mette in risalto la differenza di Paolo rispetto a tutte le altre figure di chiamati dei vangeli. La differenza consiste essenzialmente nel fatto che egli ha conosciuto non il Gesù terreno, ma unicamente  il Risorto. Questo segna una svolta determinante nella chiesa nascente, inaugura cioè il tempo in cui le persone inizieranno ad aderire  al Signore  Gesù a partire da un incontro con lui risorto, cioè da un'esperienza della sua presenza viva e operante nella storia, una presenza mediata dalla comunità costituita nel suo nome.

Per questo motivo Paolo, più che gli evangelisti, può farci gustare la sensazione di «essere arrivati in porto», perché egli «si è trovato nell'identica situazione in cui ci troviamo  noi». Paolo non conobbe Gesù nella sua vita terrena, a differenza degli altri apostoli; «di Lui Paolo aveva avuto notizie nello stesso modo in cui ne possiamo avere noi», prima «dall'esterno, ad  opera  di  quelli che   riferiscono   di  Lui...  poi   dall'interno,  quando il Signore lo chiamò e gli si rivelò nello spirito e nel cuore»; e quando «Paolo delinea la propria figura di Cristo, attinge dunque fondamentalmente alle stesse fonti alle quali noi pure facciamo ricorso: al messaggio tramandato e alla propria esperienza» (citazioni da Romano Guardini).

Un'altra differenza rispetto ai chiamati che incontriamo nel vangelo è che Paolo, pur essendo ebreo come loro, è un uomo formato anche intellettualmente nell'osservanza della Legge e dei precetti giudaici, aderente com'era al gruppo dei farisei. Per questo, quando il Signore lo chiama, il distacco che sente di dover compiere non consiste nel lasciare il lavoro o la famiglia, ma qualcosa di ancora più intimo e sacro: l'immagine stessa di Dio e il rapporto con Lui basato sulla stretta osservanza della legge mosaica; e non c'è cosa più lacerante che doversi ricredere su ciò in cui si pone tutta la propria sicurezza, e viene gelosamente custodito come un valore assoluto, da difendere anche a costo di usare violenza contro chi lo minaccia.

 

Una personalità poliedrica, centrata su Cristo

 Prima di soffermarci sull'evento decisivo del suo incontro con Cristo, cerchiamo di delineare alcuni tratti della sua personalità, ciò che sta alla base  della sua grandezza unica nel cristianesimo. Paolo è stato al contempo missionario, fondatore di comunità, autore di scritti, teologo, mistico e martire. In lui incontriamo una personalità ricca e poliedrica, legata a mondi culturali diversi che attraverso di lui entrano in contatto tra loro, con le immancabili tensioni, a loro volta sempre potenzialmente feconde: un ebreo consapevole e fiero delle sue tradizioni, un ellenista avvezzo alle grandi città dell'Impero romano, un entusiasta di Gesù di Nazaret che, insieme ad altri discepoli, egli confessa messia e Signore, morto e risorto per tutti ( “Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.  2 Corinzi 5,15). Proprio questa molteplicità di aspetti è stata la ragione per cui in ogni epoca il cristianesimo ha almeno in parte rielaborato la comprensione di sé proprio in base al confronto, non sempre facile, con la figura dell'apostolo delle genti, così come essa traspare dalle sue lettere. Ciò che egli scrive rispecchia da vicino quanto aveva elaborato nella sua predicazione, nella riflessione e nel confronto che avveniva nelle comunità cristiane. In particolare, riguardo alla propria esperienza religiosa Paolo non scrive a caldo, appena dopo la svolta cristiana, ma a una ventina d'anni di distanza, quando le intuizioni, le ispirazioni iniziali hanno avuto tutto il tempo di sedimentarsi, essere ripensate, argomentate, e dopo aver superato il vaglio delle inevitabili obiezioni, soprattutto da parte giudaica.

Tuttavia, malgrado sia ormai trascorsa una generazione da quei fatti, Paolo nella sua narrazione conserva tutta quell'incisività e freschezza, quella passione ed entusiasmo che di solito ci si aspetta soltanto da un neo-convertito.

 Non si può dubitare che il suo pensiero su Cristo, sulla Chiesa, sulle cose ultime,… abbia il suo principio ispiratore proprio nell'incontro personale con il Signore Gesù iniziato con l'evento di Damasco. Allo stesso tempo, però, si deve ritenere che le concezioni cristologiche fondamentali da lui sostenute coincidono in gran parte con le convinzioni riguardanti Gesù­messia presenti già nei primi gruppi di credenti che egli aveva dapprima rigettato e ostacolato con tanto zelo religioso, e poi in quelle comunità che lo avevano accolto nei primi anni (in modo particolare quella di Antiochia di Siria). Tale ricezione della tradizione la si può dedurre da quei passi delle sue lettere in cui egli riporta  terminologia o formule di fede tradizionali a lui precedenti (1 Tessalonicesi 1,10; 1 Corinzi 15,3-4; Filippesi 2,6-11; Romani 1,3-4; 3,25-26; 4,24-25 ecc.) . 

Quanto ricevette in nuce in quell'avvenimento venne man mano approfondito, confermato, compreso più chiaramente attraverso l'esperienza missionaria che andava facendo nella fondazione di nuove chiese e il contatto con le culture che incontrava, senza escludere altre rivelazioni ed esperienze mistiche che egli conobbe anche in seguito (“Quattordici anni dopo, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito: vi andai però in seguito a una rivelazione. Galati 2,1-2).

Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare.  2 Corinzi 12,1-4). In ogni caso, Paolo non si limita mai a trasmettere meccanicamente quanto ricevuto, ma ripensa, reinterpreta, rielabora in modo ispirato e creativo il dato fondamentale dell'evangelo nel confronto e nello scambio fecondo con le concrete situazioni delle comunità cristiane.

 

La "chiamata": l'evento di Damasco origine dell'evangelo paolino

 La svolta decisiva nella vita di Paolo, tradizionalmente chiamata "conversione",  presenta  solo in parte le caratteristiche abituali connesse con questo termine; in particolare lo è se si intende un profondo, totale, riorientamento esistenziale; non lo è se invece si intende il passaggio da una vita a-religiosa o immorale a una religiosa-virtuosa, dal momento che lui stesso, da ebreo fariseo osservante com'era prima, si definiva «irreprensibile» per quanto riguarda la Legge ( “quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile.“ Filippesi 3,6); né si può applicare a Paolo questo termine pensando a chi è passato da una  religione a un'altra: Paolo certamente  non  ha  avuto  affatto la consapevolezza di avere cambiato religione, smettendo di essere ebreo o togliendo ogni valore alla legge mosaica (e questo vale anche  per  tutta la chiesa nascente, che era interamente di matrice giudaica).

 

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Andando a verificare i testi che trattano  questo evento, la prima osservazione che va fatta è che né le lettere di Paolo né gli Atti degli Apostoli usano il vocabolario della conversione o del pentimento; inoltre Paolo accenna più volte all'incontro decisivo con Cristo che gli ha cambiato la vita, ma non descrive né le circostanze né dove si trovava. Dalle scarse annotazioni sull'esperienza sensoriale, egli passa subito al significato cristologico ed esistenziale: «Ho visto il Signore» (1 Corinzi 9,1); «Apparve anche a me» (15,8); «Dio rifulse nei nostri cuori... nel volto di Cristo» (2 Corinzi 4,6); «Sono stato afferrato da Cristo» (Filippesi 3,12). L'esposizione più ricca di elementi teologici è in  Galati  1,12.15-16:  «L'evangelo  da me annunciato... l'ho ricevuto per rivelazione  di Gesù Cristo... quando colui, che  mi  mise  a  parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò per la sua grazia, si compiacque di rivelare il Figlio  suo  in me, perché lo annunziassi tra le genti».

Anzitutto Paolo chiarisce che l'iniziativa è  di  Dio, è  lui  che ha liberamente scelto di chiamarlo e  di  rivelargli che Gesù è Figlio suo, e questo per  pura  grazia: egli era del tutto indegno, in  un  certo  senso  il meno  meritevole,  dal  momento  che  perseguitava la chiesa di Dio.

D'altronde questo svelamento dell'identità di Gesù non resta senza conseguenze: in primo luogo in Paolo stesso («rivelare il suo Figlio in me»), provocando uno sconvolgimento del suo orizzonte valoriale (non si nomina affatto la legge mosaica, non è più il criterio fondamentale), e poi istillando in lui il desiderio di farlo conoscere a tutti, al di là di ogni restrizione  etnica e culturale. Tale svolta  ha  dunque soprattutto le caratteristiche di una chiamata, di un incarico divino: Paolo si sentì chiamato ed ebbe la grazia della rivelazione. Anche nell'incipit delle sue lettere si presenta come colui che  è stato  reso apostolo in base alla chiamata («Apostolo per chiamata»: Romani 1,1; cfr. anche 1 Corinzi 1,1); questa insistenza sulla chiamata divina è anche dovuta al fatto che Paolo aveva la necessità di legittimarsi di fronte a chi metteva in dubbio il suo essere apostolo mandato da Cristo stesso: egli era stato chiamato all'apostolato - e dunque era apostolo - direttamente per grazia di Dio, senza aver fatto parte dei Dodici e senza aver ricevuto l'evangelo da loro. Probabilmente è anche per questo motivo che Paolo descrive il suo caso facendo ricorso al modello dei grandi profeti, anch'essi chiamati direttamente da Dio, come Isaia o Geremia.

Richiamiamo in particolare alcuni passaggi da quei testi profetici, che risultano illuminanti per la chiamata alla missione:

 Dal seno materno il Signore mi ha chiamato, dalle viscere della madre mia ha fatto menzione del mio nome. Rese la mia bocca come una spada tagliente, mi nascose sotto l'ombra della sua mano, mi rese una freccia appuntita, mi ripose nella sua faretra. [...] «È poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d'Israele; perciò ti farò luce delle nazioni, perché la mia salvezza raggiunga l'estremità della terra» (Isaia 49,1-2.6).

 

L'annuncio della parola di Dio, che è la missione connessa con la chiamata, viene percepito quasi come una costrizione:

 Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; [...] la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo (Geremia 20,7-9).

 

Paolo esprime in modo analogo questo sentimento, come se non avesse altra scelta:

 Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che  mi è stato affidato (1 Corinzi 9,16-17).

 

Ciò che è avvenuto in lui a partire da quel giorno fatidico è descritto al meglio nel cap. 3 della lettera ai Filippesi:

 Ma queste cose (cioè, tutto ciò che faceva il suo orgoglio di giudeo osservante, cfr. 3,5-6), che per me erano guadagni, io le ho  considerate  una  perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore.

Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte . (vv. 7-10).

 

Paolo qui non sta affermando che il resto sia senza valore; ribadisce soltanto che  tutto è danno e spazzatura al confronto! Ogni altra realtà - anche la più sublime - sbiadisce se è posta in paragone con la luce del Cristo. Qui di certo va annoverata tutta la ricchezza proveniente dal giudaismo: Paolo più di tutti gli autori del Nuovo Testamento insiste sull'ebraicità di Gesù e sulla irrevocabilità delle promesse fatte a Israele (cfr. Romani 9-11), ma è soltanto in Cristo che ogni altra cosa - a partire dall'eredità religiosa del giudaismo - acquista tutto il colore e la preziosità che essa possiede. Avviene dunque un cambiamento totale di prospettiva, una specie di reset della scala dei valori, riorganizzati ora intorno a un inedito principio assoluto - quasi un nuovo sistema operativo - che diventa base di una nuova esistenza: non è più la Legge, né un libro sacro, e nessun'altra pratica religiosa, ma la persona vivente del Cristo crocifisso e risorto.

Paolo ha cambiato il suo punto di appoggio: non più le sue opere religiose che come fariseo gli facevano accumulare crediti con Dio, ma un unico debito, incolmabile, per avere ricevuto gratuitamente l'amore incondizionato di Cristo-salvezza. Unica condizione è la fede, cioè aprire le braccia per accogliere il dono. Per tale motivo quell'evento è caratterizzato da subito non da penitenza o sacrifici per i peccati commessi, ma dalla missione.

  

La chiamata alla missione, debito d'amore verso Cristo e i fratelli

 Da quel fatidico momento dell'incontro con Cristo, Paolo si sente investito in modo del tutto immeritato dalla grazia e sente l'incontenibile desiderio di farne partecipi tutti coloro che ancora non hanno ricevuto questo Vangelo-buona notizia: «Dio è misericordia». È di questo che si sente in debito, un debito d'amore, che cercherà di colmare proprio attraverso la missione, espressione della sua ansia di trasmettere questa notizia straordinaria: «Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma» (Romani 1,14-15). Paolo usa altrove questo concetto del debito, ma di solito sempre in relazione a un favore ricevuto da qualcuno, verso il quale per questo si è in debito. Invece qui si dichiara debitore verso delle persone (greci e barbari, sapienti e ignoranti, cioè tutti) che non solo non hanno fatto nulla per  lui, ma che  nemmeno lo conoscono di persona! Il contenuto di questa affermazione, «sono in debito verso tutti» - che esprime il tipico universalismo cristiano - si ritrova espresso in modo diverso in altri passi delle sue lettere.

 

Tra gli altri vale la  pena  di  riportare  1 Corinzi 9,20-23:

Mi sono fatto come giudeo per i giudei, per guadagnare i giudei. Per coloro che sono sotto la Legge - pur non essendo io sotto la Legge - mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. Per coloro che non hanno Legge - pur non  essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo - mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. Mi sono fatto debole per i deboli,  per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch'io.

 

Tale universalismo implica la novità che coloro che nell'ottica giudaica erano finora considerati esclusi dall'elezione di Israele, sono ora i destinatari del Vangelo: un tratto caratteristico in modo particolare della prospettiva paolina è dunque l'inclusione degli altri, dei diversi, degli estromessi.

Se riprendiamo quel termine «debito», che di solito è connotato in modo negativo, sembra proprio che per Paolo paradossalmente sia qualcosa di positivo, quasi che sia contento di essere in debito; e poi come fa ad affermare di essere in debito con i credenti di Roma dai quali non ha ricevuto nulla, e che non ha mai incontrato prima?

Il senso più profondo va ricercato nel suo sentirsi "graziato" al di là di ogni possibile immaginazione, nella consapevolezza di avere ricevuto un regalo così grande che non può non condividerlo con altri, insieme alla gioia che da esso deriva.

Paolo vivrà con  gioia  questo  sentirsi  debitore, un sentimento che lo spingerà  comunque  a  cercare di sdebitarsi - sapendo al contempo di non poterlo fare veramente - condividendo il dono dell'esperienza pasquale  di  Cristo  vivo.  In  fondo, il passaggio fondamentale che egli vive con la sua "conversione" è quello da una vita virtuosamente legata all'osservanza della Legge, per cui ci si poteva sentire fieri della propria performance religiosa fino a vantare crediti con Dio, all'esperienza di essere amati in modo incondizionato, un amore che precede qualsiasi risposta umana: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Romani 5,8). E il cercare di sdebitarsi, semmai fosse possibile, non consiste tanto nel ri-amare il Signore, ma nell'amare i fratelli («Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell'amore vicendevole; perché chi ama l'altro ha adempiuto la Legge»: Romani 13,8); il debito d'amore verso il Signore corrisponde subito al debito verso il fratello, e il mio "dovere" verso di lui corrisponde al suo "diritto" di ricevere anch'egli il dono di Dio attraverso di me, facendogli il bene più grande: l'annuncio del vangelo della grazia.

Questa fondamentale esperienza di Paolo sta alla base di tutto il suo pensiero, in particolare della cosiddetta dottrina della giustificazione: la giustizia che rende giusto l'uomo non è quella basata sulla messa in pratica delle opere richieste dalla Legge, ma quella basata unicamente sulla fede in Cristo. Per Paolo se uno è in Cristo attraverso la fede in Lui, allora è "graziato": ottiene la giustizia («Non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che viene dalla fede in Cristo, giustizia che viene da Dio, basata sulla fede»: Filippesi 3,9). Le opere dunque non entrano  in gioco per essere giustificati (perdonati, riconciliati...). Sono semmai effetto,  testimonianza,  condivisione di un dono ricevuto; esse scaturiscono per così dire in modo naturale, quasi automatico,  dalla fede: «Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità» (Calati 5,6).

  

Altri chiamati all'apostolato - anche donne - al seguito di Paolo

 Accostandosi la prima volta alla figura di Paolo, qualcuno potrebbe avere l'impressione di trovarsi di fronte a un apostolo e predicatore solitario. In realtà, leggendo bene le fonti, si scoprirebbe un uomo dalle tante ricche relazioni e capace di intessere importanti legami di amicizia e collaborazione nell'apostolato. Soltanto a contare le persone a lui collegate, tra gli Atti e le lettere, si troverebbe di fronte a un elenco di quasi cento nomi, nelle sole lettere circa trentacinque sono designati sotto vario titolo come collaboratori, una dozzina di costoro partecipano da vicino e in modo prolungato alla sua missione: Barnaba, Marco e Tito già dal tempo del suo ministero ad Antiochia (Atti 13,1-3.5; Calati 2,1.13); Timoteo, Luca, Lidia, gli sposi Priscilla e Aquila, Erasto, nel corso della sua missione in Grecia (Atti 16-19; Romani 16; 2 Timoteo 4); Apollo, Trofimo e Tichico compaiono a partire dal primo ministero egeo di Paolo (Atti 19,1; 20,4; 1 Corinzi 16,12; Efesini 6,21; Colossesi 4,7; 2 Timoteo 4,12; Tito 3,13).

Andrebbero poi aggiunti i co-mittenti delle sue lettere. Oltre a Timoteo, già menzionato sopra (si trova nel primo versetto di 1 Tessalonicesi, 2 Tessalonicesi, 2 Corinzi, Filippesi, Filemone, Colossesi), vi troviamo il nome di Silvano (1 Tessalonicesi, 2 Tessalonicesi)  e Sostene (1 Corinzi) e anonimi fratelli (Galati 1,2). Quasi sempre nel suo prescritto epistolare Paolo abbina  qualche  altro  mittente con lui, come per sottolineare che non è  mai solo a scrivere, esortare, disporre: c'è sempre una comunità con lui, una comunione ecclesiale che fonda l'autorità.

Riguardo al ruolo delle donne nell'apostolato, si deve registrare che quasi un terzo di quei trentacinque collaboratori di cui si diceva sopra hanno nomi femminili e, grazie ai brevi titoli e/o osservazioni che li accompagnano (si trovano quasi sempre nella parte finale delle lettere paoline, quella dei saluti), possiamo delineare in particolare il ruolo delle donne nel ministero apostolico: esse hanno di sicuro svolto compiti di evangelizzazione  e gestione delle comunità.  

Per   esempio, nella lettera ai Filippesi Paolo nomina due donne, Evodia e Sintiche, esortandole a essere concordi nel Signore (4,2), e prega un suo fedele compagno di aiutarle (a riconciliarsi), perché esse hanno combattuto per il Vangelo insieme con lui, al pari di altri collaboratori tra cui Clemente: «I loro nomi sono scritti nel libro della vita» (4,3). Per queste donne l'avere lottato insieme a Paolo per la diffusione del Vangelo comporta in qualche modo l'avere esercitato almeno in parte lo stesso ministero dell'apostolo. Inoltre le espressioni di ammirazione e il fatto che praticamente sono le uniche persone a essere nominate (oltre a Clemente, che con ogni probabilità è un membro di quella chiesa) portano a dedurre che esse devono aver avuto un ruolo di primo piano nella conduzione di quella comunità. Qualcosa di simile si può supporre anche di Cloe (1 Corinzi 1,11) e di Appia (Filemone 2).

Ma è soprattutto nel capitolo conclusivo della lettera ai Romani che abbondano i riferimenti a donne collaboratrici nell'apostolato,  a cui Paolo rivolge saluti e apprezzamenti. Vediamoli in sintesi.

In Romani 16,1-16 Paolo nomina ventinove persone; di ventisette riporta il nome; otto sono donne (due restano anonime: la madre di Rufo e la sorella di Nereo, ai vv. 13.15).

La prima menzionata è Febe, detta «nostra sorella» che è «diacono della chiesa di Cenere... patrona di molti e anche di me stesso» (16,1). Il titolo di «diacono» non indica un generico servizio. Bisogna invece tenere presente che con questo termine Paolo di solito designa se stesso o i suoi collaboratori nell'esercizio del ministero apostolico (1 Corinzi 3,5; 2 Corinzi 3,1-11; Filippesi 1,1; Romani 15,8: Cristo diacono dei circoncisi); e, come per quelle  ricorrenze,  si  traduce  nella  maggior parte dei casi con «ministro» - a cui è legato un ruolo di responsabilità e autorità nella chiesa - anche qui per coerenza andrebbe tradotto e compreso allo stesso modo. L'altro titolo di Febe, «patrona», indica senz'altro il ruolo di guida e presidenza. Nel nostro caso bisogna intendere il senso di «donna posta sopra altri». In una traduzione più moderna, potrebbe essere reso con «presidente».

Al v. 3 dice di salutare Prisca e Aquila (suo marito). Prisca (o Priscilla: Atti 18,2-3.26; 1 Corinzi 16,19; cfr. anche 2 Timoteo 4,19) è  identificata come «collaboratrice». Al v. 6 saluta Maria «che si è data molto da fare per voi». Al v. 7 chiede di salutare «Andronico e Giunia... eccellenti tra gli apostoli». Giunia non  è un  uomo come  molti commentatori, in modo particolare nel  passato,  hanno sostenuto, ma una donna. Di loro Paolo afferma che sono suoi parenti, e diventati  discepoli  di  Cristo  prima di lui. Al v. 12 dice di salutare Trifena e Trifosa, due donne che «si danno da fare per il Signore»; e «la carissima Perside», che anch'ella «si dà molto  da fare per il Signore». Al v. 13 saluta la madre di Rufo che è stata anche per Paolo una madre. Al v. 15 si nominano infine Giulia e la sorella di Nereo.

Complessivamente le cose che si dicono delle donne in Romani 16 sono talmente rilevanti da far intravedere un loro ruolo di primo piano nelle prime comunità cristiane (e non solo in quelle di matrice paolina, perché sappiamo che Paolo scrive a una comunità non fondata da lui), in quanto collaboratrici nel ministero apostolico di Paolo, o in generale in quanto si sono date da fare  per il Signore. Romani 16, dunque,  può davvero essere inteso come «la più gloriosa attestazione di onore per l'apostolato della donna nella chiesa primitiva» (P. Ketter).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ORATIO Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.

 

Quel che mi accadrà oggi,

mio Dio, non lo so,

ma credo che tutto tu orienti al mio bene.

 

Ciò che potrò fare oggi

lo conosco solo in parte,

ma confido sull’aiuto che

tu puoi darmi.

 

Come potrò reagire oggi alle varie

situazioni, lo ignoro,

ma conto sul tuo amore efficace. 

Quanto servirà quest’oggi

al mio futuro, mi sfugge, ma desidero preparare con te il mio domani.

 

O Dio, che sei guida e difesa,

rimani sempre al mio fianco

e niente mi potrà più fare paura.

 

 

(“La mia voce sale a te, Signore” –

Il salmo 91 riletto da un giovane)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTEMPLATIO     Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù.  È Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!

 

Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio Padre Onnipotente,  

nell’unità dello Spirito Santo,

ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.  Amen

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ACTIO     Mi impegno a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.

Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!

Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.

Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da Gesù: Padre Nostro...

Arrivederci!  

 

(spunti liberamente tratti da una lectio di don Giuseppe Pulcinelli, della Chiesa di Roma)