Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso. Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi.
Eccomi, Tu mi hai chiamato.
Parla,
o Signore: Il tuo servo ti
ascolta”. |
Veni, Sancte Spiritus, Veni, per Mariam.
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SCEGLIERE DI RISPONDERE.
Continuiamo a pregare seguendo alcune lectio liberamente tratte da riflessioni
di don Giuseppe Pulcinelli, sacerdote della Chiesa di Roma.
Buona meditazione e buona preghiera.
LECTIO Apro
la Parola di Dio e leggo in piedi i brani che mi vengono proposti.
(ATTI 8)
1In
quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme;
tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e
della Samaria.
2Uomini
pii seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui.
3Saulo
intanto cercava di distruggere la Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e
donne e li faceva mettere in carcere.
4Quelli
però che si erano dispersi andarono di luogo in luogo, annunciando la Parola.
(ATTI 9)
1Saulo,
spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si
presentò al sommo sacerdote
2e
gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a
condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e
donne, appartenenti a questa Via.
3E
avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco,
all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo
4e,
cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi
perséguiti?».
5Rispose:
«Chi sei, o Signore?». Ed egli: «Io sono Gesù, che tu perséguiti!
6Ma
tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare».
7Gli
uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la
voce, ma non vedendo nessuno.
8Saulo
allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo
per mano, lo condussero a Damasco.
9Per
tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda.
10C’era
a Damasco un discepolo di nome Anania. Il Signore in una visione gli disse:
«Anania!». Rispose: «Eccomi, Signore!».
11E
il Signore a lui: «Su, va’ nella strada chiamata Diritta e cerca nella casa di
Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco, sta pregando
12e
ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire a imporgli le mani perché
recuperasse la vista».
13Rispose
Anania: «Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti quanto male ha fatto
ai tuoi fedeli a Gerusalemme.
14Inoltre,
qui egli ha l’autorizzazione dei capi dei sacerdoti di arrestare tutti quelli
che invocano il tuo nome».
15Ma
il Signore gli disse: «Va’, perché egli è lo strumento che ho scelto per me,
affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele;
16e
io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome».
17Allora
Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello, mi
ha mandato a te il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada che
percorrevi, perché tu riacquisti la vista e sia colmato di Spirito Santo».
18E
subito gli caddero dagli occhi come delle squame e recuperò la vista. Si alzò e
venne battezzato,
19poi
prese cibo e le forze gli ritornarono.
Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco,
20e
subito nelle sinagoghe annunciava che Gesù è il Figlio di Dio.
21E
tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Non è lui che a
Gerusalemme infieriva contro quelli che invocavano questo nome ed era venuto qui
precisamente per condurli in catene ai capi dei sacerdoti?».
«
PAOLO, IL PRIMO CHIAMATO DAL
RISORTO
»
“Chi
sei, o Signore?”
“Il primo chiamato dal Risorto”. Questa meditazione mette in risalto la
differenza di Paolo rispetto a tutte le altre figure di chiamati dei vangeli. La
differenza consiste essenzialmente nel fatto che egli ha conosciuto non il Gesù
terreno, ma unicamente il Risorto.
Questo segna una svolta determinante nella chiesa nascente, inaugura cioè il
tempo in cui le persone inizieranno ad aderire
al Signore Gesù a partire da
un incontro con lui risorto, cioè da un'esperienza della sua presenza viva e
operante nella storia, una presenza mediata dalla comunità costituita nel suo
nome.
Per questo motivo Paolo, più che gli evangelisti, può farci gustare la
sensazione di «essere arrivati in porto»,
perché egli «si è trovato nell'identica situazione
in cui ci troviamo noi». Paolo non
conobbe Gesù nella sua vita terrena, a differenza degli altri apostoli; «di Lui
Paolo aveva avuto notizie nello stesso modo in cui ne possiamo avere noi»,
prima «dall'esterno, ad
opera di
quelli che riferiscono
di Lui...
poi dall'interno,
quando
il Signore lo chiamò e gli si rivelò nello spirito e nel cuore»;
e quando «Paolo delinea la propria figura di
Cristo, attinge dunque fondamentalmente alle stesse fonti alle quali noi pure
facciamo ricorso: al messaggio tramandato e alla propria esperienza»
(citazioni da Romano Guardini).
Un'altra differenza rispetto ai chiamati che incontriamo nel vangelo è che
Paolo, pur essendo ebreo come loro, è un uomo formato anche intellettualmente
nell'osservanza della Legge e dei precetti giudaici, aderente com'era al gruppo
dei farisei. Per questo, quando il Signore lo chiama, il distacco che sente di
dover compiere non consiste nel lasciare il lavoro o la famiglia, ma qualcosa di
ancora più intimo e sacro: l'immagine stessa di Dio e il rapporto con Lui basato
sulla stretta osservanza della legge mosaica; e non c'è cosa più lacerante che
doversi ricredere su ciò in cui si pone tutta la propria sicurezza, e viene
gelosamente custodito come un valore assoluto, da difendere anche a costo di
usare violenza contro chi lo minaccia.
Una personalità poliedrica, centrata su Cristo
Tuttavia, malgrado sia ormai trascorsa una generazione da quei fatti, Paolo
nella sua narrazione conserva tutta quell'incisività e freschezza, quella
passione ed entusiasmo che di solito ci si aspetta soltanto da un
neo-convertito.
Quanto ricevette in nuce in quell'avvenimento venne man mano approfondito,
confermato, compreso più chiaramente attraverso l'esperienza missionaria che
andava facendo nella fondazione di nuove chiese e il contatto con le culture che
incontrava, senza escludere altre rivelazioni ed esperienze mistiche che egli
conobbe anche in seguito (“Quattordici
anni dopo, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me
anche Tito: vi andai però in seguito a una rivelazione.
“Galati
2,1-2).
“Se
bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle
rivelazioni del Signore. So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con
il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo.
E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu
rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno
pronunciare.
“
2 Corinzi 12,1-4). In ogni caso, Paolo non si limita mai a trasmettere
meccanicamente quanto ricevuto, ma ripensa, reinterpreta, rielabora in modo
ispirato e creativo il dato fondamentale dell'evangelo nel confronto e nello
scambio fecondo con le concrete situazioni delle comunità cristiane.
La "chiamata": l'evento di Damasco origine dell'evangelo paolino
.
Andando a verificare i testi che trattano
questo evento, la prima osservazione che va fatta è che né le lettere di
Paolo né gli Atti degli Apostoli usano il vocabolario della conversione o del
pentimento; inoltre Paolo accenna più volte all'incontro decisivo con Cristo che
gli ha cambiato la vita, ma non descrive né le circostanze né dove si trovava.
Dalle scarse annotazioni sull'esperienza sensoriale, egli passa subito al
significato cristologico ed esistenziale: «Ho
visto il Signore» (1 Corinzi 9,1); «Apparve
anche a me» (15,8); «Dio
rifulse nei nostri cuori... nel volto di Cristo» (2 Corinzi 4,6);
«Sono stato
afferrato da Cristo» (Filippesi 3,12). L'esposizione più ricca di
elementi teologici è in Galati
1,12.15-16: «L'evangelo
da me annunciato... l'ho ricevuto per rivelazione
di Gesù Cristo... quando colui, che
mi mise
a parte fin dal seno di mia
madre e mi chiamò per la sua grazia, si compiacque di rivelare il Figlio
suo in me, perché lo
annunziassi tra le genti».
Anzitutto Paolo chiarisce che l'iniziativa è
di Dio, è
lui che ha liberamente
scelto di chiamarlo e di
rivelargli che Gesù è Figlio suo, e questo per
pura grazia: egli era del
tutto indegno, in un
certo senso
il meno meritevole,
dal momento
che perseguitava la chiesa
di Dio.
D'altronde questo svelamento dell'identità di Gesù non resta senza conseguenze:
in primo luogo in Paolo stesso («rivelare
il suo Figlio in me»), provocando uno sconvolgimento del suo
orizzonte valoriale (non si nomina affatto la legge mosaica, non è più il
criterio fondamentale), e poi istillando in lui il desiderio di farlo conoscere
a tutti, al di là di ogni restrizione
etnica e culturale. Tale svolta
ha dunque soprattutto le
caratteristiche di una chiamata, di un incarico divino: Paolo si sentì chiamato
ed ebbe la grazia della rivelazione. Anche nell'incipit delle sue lettere si
presenta come colui che è stato
reso apostolo in base alla chiamata («Apostolo
per chiamata»: Romani 1,1; cfr. anche 1 Corinzi 1,1); questa
insistenza sulla chiamata divina è anche dovuta al fatto che Paolo aveva la
necessità di legittimarsi di fronte a chi metteva in dubbio il suo essere
apostolo mandato da Cristo stesso: egli era stato chiamato all'apostolato - e
dunque era apostolo - direttamente per grazia di Dio, senza aver fatto parte dei
Dodici e senza aver ricevuto l'evangelo da loro. Probabilmente è anche per
questo motivo che Paolo descrive il suo caso facendo ricorso al modello dei
grandi profeti, anch'essi chiamati direttamente da Dio, come Isaia o Geremia.
Richiamiamo in particolare alcuni passaggi da quei testi profetici, che
risultano illuminanti per la chiamata alla missione:
L'annuncio della parola di Dio, che è la missione connessa con la chiamata,
viene percepito quasi come una costrizione:
Paolo esprime in modo analogo questo sentimento, come se non avesse altra
scelta:
Ciò che è avvenuto in lui a partire da quel giorno fatidico è descritto al
meglio nel cap. 3 della lettera ai Filippesi:
Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per
guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella
derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia
che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza
della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme
alla sua morte
. (vv. 7-10).
Paolo qui non sta affermando che il resto sia senza valore; ribadisce soltanto
che tutto è danno e spazzatura al
confronto! Ogni altra realtà - anche la più sublime - sbiadisce se è posta in
paragone con la luce del Cristo. Qui di certo va annoverata tutta la ricchezza
proveniente dal giudaismo: Paolo più di tutti gli autori del Nuovo Testamento
insiste sull'ebraicità di Gesù e sulla irrevocabilità delle promesse fatte a
Israele (cfr. Romani 9-11), ma è soltanto in Cristo che ogni altra cosa - a
partire dall'eredità religiosa del giudaismo - acquista tutto il colore e la
preziosità che essa possiede. Avviene dunque un cambiamento totale di
prospettiva, una specie di reset della scala dei valori, riorganizzati ora
intorno a un inedito principio assoluto - quasi un nuovo sistema operativo - che
diventa base di una nuova esistenza: non è più la Legge, né un libro sacro, e
nessun'altra pratica religiosa, ma la persona vivente del Cristo crocifisso e
risorto.
Paolo ha cambiato il suo punto di appoggio: non più le sue opere religiose che
come fariseo gli facevano accumulare crediti con Dio, ma un unico debito,
incolmabile, per avere ricevuto gratuitamente l'amore incondizionato di
Cristo-salvezza. Unica condizione è la fede, cioè aprire le braccia per
accogliere il dono. Per tale motivo quell'evento è caratterizzato da subito non
da penitenza o sacrifici per i peccati commessi, ma dalla missione.
La chiamata alla missione, debito d'amore verso Cristo e i fratelli
Tra gli altri vale la pena
di riportare
1 Corinzi 9,20-23:
Mi sono fatto come giudeo per i giudei, per guadagnare i giudei. Per coloro che
sono sotto la Legge - pur non essendo io sotto la Legge - mi sono fatto come uno
che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge.
Per coloro che non hanno Legge - pur non
essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo - mi
sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono
senza Legge. Mi sono fatto debole per i deboli,
per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a
ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe
anch'io.
Tale universalismo implica la novità che coloro che nell'ottica giudaica erano
finora considerati esclusi dall'elezione di Israele, sono ora i destinatari del
Vangelo: un tratto caratteristico in modo particolare della prospettiva paolina
è dunque l'inclusione degli altri, dei diversi, degli estromessi.
Se riprendiamo quel termine «debito»,
che di solito è connotato in modo negativo, sembra proprio che per Paolo
paradossalmente sia qualcosa di positivo, quasi che sia contento di essere in
debito; e poi come fa ad affermare di essere in debito con i credenti di Roma
dai quali non ha ricevuto nulla, e che non ha mai incontrato prima?
Il senso più profondo va ricercato nel suo sentirsi "graziato" al di là di ogni
possibile immaginazione, nella consapevolezza di avere ricevuto un regalo così
grande che non può non condividerlo con altri, insieme alla gioia che da esso
deriva.
Paolo vivrà con gioia
questo sentirsi
debitore, un sentimento che lo spingerà
comunque a
cercare di sdebitarsi - sapendo al contempo di non poterlo fare veramente
- condividendo il dono dell'esperienza pasquale
di Cristo
vivo. In
fondo, il passaggio fondamentale che egli vive con la sua "conversione" è
quello da una vita virtuosamente legata all'osservanza della Legge, per cui ci
si poteva sentire fieri della propria performance religiosa fino a vantare
crediti con Dio, all'esperienza di essere amati in modo incondizionato, un amore
che precede qualsiasi risposta umana: «Dio
dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora
peccatori, Cristo è morto per noi» (Romani 5,8). E il cercare di
sdebitarsi, semmai fosse possibile, non consiste tanto nel ri-amare il Signore,
ma nell'amare i fratelli («Non
siate debitori di nulla a nessuno, se non dell'amore vicendevole; perché chi ama
l'altro ha adempiuto la Legge»: Romani 13,8); il debito d'amore
verso il Signore corrisponde subito al debito verso il fratello, e il mio
"dovere" verso di lui corrisponde al suo "diritto" di ricevere anch'egli il dono
di Dio attraverso di me, facendogli il bene più grande: l'annuncio del vangelo
della grazia.
Questa fondamentale esperienza di Paolo sta alla base di tutto il suo pensiero,
in particolare della cosiddetta dottrina della giustificazione: la giustizia che
rende giusto l'uomo non è quella basata sulla messa in pratica delle opere
richieste dalla Legge, ma quella basata unicamente sulla fede in Cristo. Per
Paolo se uno è in Cristo attraverso la fede in Lui, allora è "graziato": ottiene
la giustizia («Non
con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che viene dalla fede
in Cristo, giustizia che viene da Dio, basata sulla fede»:
Filippesi 3,9). Le opere dunque non entrano
in gioco per essere giustificati (perdonati, riconciliati...). Sono
semmai effetto, testimonianza,
condivisione di un dono ricevuto; esse scaturiscono per così dire in modo
naturale, quasi automatico, dalla
fede: «Poiché
in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la
fede che opera per mezzo della carità» (Calati 5,6).
Altri chiamati all'apostolato - anche donne - al seguito di Paolo
Andrebbero poi aggiunti i co-mittenti delle sue lettere. Oltre a Timoteo, già
menzionato sopra (si trova nel primo versetto di 1 Tessalonicesi, 2
Tessalonicesi, 2 Corinzi, Filippesi, Filemone, Colossesi), vi troviamo il nome
di Silvano (1 Tessalonicesi, 2 Tessalonicesi) e
Sostene (1 Corinzi) e anonimi fratelli (Galati 1,2). Quasi sempre nel suo
prescritto epistolare Paolo abbina
qualche altro
mittente con lui, come per sottolineare che non è
mai solo a scrivere, esortare, disporre: c'è sempre una comunità con lui,
una comunione ecclesiale che fonda l'autorità.
Riguardo al ruolo delle donne nell'apostolato, si deve registrare che quasi un
terzo di quei trentacinque collaboratori di cui si diceva sopra hanno nomi
femminili e, grazie ai brevi titoli e/o osservazioni che li accompagnano (si
trovano quasi sempre nella parte finale delle lettere paoline, quella dei
saluti), possiamo delineare in particolare il ruolo delle donne nel ministero
apostolico: esse hanno di sicuro svolto compiti di evangelizzazione
e gestione delle comunità.
Per esempio, nella lettera ai
Filippesi Paolo nomina due donne, Evodia e Sintiche, esortandole a essere
concordi nel Signore (4,2), e prega un suo fedele compagno di aiutarle (a
riconciliarsi), perché esse hanno combattuto per il Vangelo insieme con lui, al
pari di altri collaboratori tra cui Clemente: «I
loro nomi sono scritti nel libro della vita» (4,3). Per queste
donne l'avere lottato insieme a Paolo per la diffusione del Vangelo comporta in
qualche modo l'avere esercitato almeno in parte lo stesso ministero
dell'apostolo. Inoltre le espressioni di ammirazione e il fatto che praticamente
sono le uniche persone a essere nominate (oltre a Clemente, che con ogni
probabilità è un membro di quella chiesa) portano a dedurre che esse devono aver
avuto un ruolo di primo piano nella conduzione di quella comunità. Qualcosa di
simile si può supporre anche di Cloe (1 Corinzi 1,11) e di Appia (Filemone 2).
Ma è soprattutto nel capitolo conclusivo della lettera ai Romani che abbondano i
riferimenti a donne collaboratrici nell'apostolato,
a cui Paolo rivolge saluti e apprezzamenti. Vediamoli in sintesi.
In Romani 16,1-16 Paolo nomina ventinove persone; di ventisette riporta il nome;
otto sono donne (due restano anonime: la madre di Rufo e la sorella di Nereo, ai
vv. 13.15).
La prima menzionata è Febe, detta «nostra
sorella» che è «diacono
della chiesa di Cenere... patrona di molti e anche di me stesso»
(16,1). Il titolo di «diacono» non indica un generico servizio. Bisogna invece
tenere presente che con questo termine Paolo di solito designa se stesso o i
suoi collaboratori nell'esercizio del ministero apostolico (1 Corinzi 3,5; 2
Corinzi 3,1-11; Filippesi 1,1; Romani 15,8: Cristo diacono dei circoncisi); e,
come per quelle ricorrenze,
si traduce
nella maggior parte dei casi
con «ministro» - a cui è legato un ruolo di responsabilità e autorità nella
chiesa - anche qui per coerenza andrebbe tradotto e compreso allo stesso modo.
L'altro titolo di Febe, «patrona»,
indica senz'altro il ruolo di guida e presidenza. Nel nostro caso bisogna
intendere il senso di «donna posta sopra altri». In una traduzione più moderna,
potrebbe essere reso con «presidente».
Al v. 3 dice di salutare Prisca e Aquila (suo marito). Prisca (o Priscilla: Atti
18,2-3.26; 1 Corinzi 16,19; cfr. anche 2 Timoteo 4,19) è
identificata come «collaboratrice».
Al v. 6 saluta Maria «che
si è data molto da fare per voi». Al v. 7 chiede di salutare «Andronico
e Giunia... eccellenti tra gli apostoli». Giunia non
è un uomo come
molti commentatori, in modo particolare nel
passato, hanno sostenuto, ma
una donna. Di loro Paolo afferma che sono suoi parenti, e diventati
discepoli di
Cristo prima di lui. Al v.
12 dice di salutare Trifena e Trifosa, due donne che «si
danno da fare per il Signore»; e «la
carissima Perside», che anch'ella «si
dà molto da fare per il Signore».
Al v. 13 saluta la madre di Rufo che è stata anche per Paolo una madre. Al v. 15
si nominano infine Giulia e la sorella di Nereo.
Complessivamente le cose che si dicono delle donne in Romani 16 sono talmente
rilevanti da far intravedere un loro ruolo di primo piano nelle prime comunità
cristiane (e non solo in quelle di matrice paolina, perché sappiamo che Paolo
scrive a una comunità non fondata da lui), in quanto collaboratrici nel
ministero apostolico di Paolo, o in generale in quanto si sono date da fare
per il Signore. Romani 16, dunque,
può davvero essere inteso come «la più gloriosa attestazione di onore per
l'apostolato della donna nella chiesa primitiva» (P. Ketter).
ORATIO
Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla
meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa
preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti
gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano
ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.
Quel che mi accadrà oggi,
mio Dio, non lo so,
ma credo che tutto tu orienti
al mio bene.
Ciò che potrò fare oggi
lo conosco solo in parte, ma confido sull’aiuto che
tu puoi darmi.
Come potrò reagire oggi alle varie
situazioni, lo ignoro,
ma conto sul tuo amore efficace. |
Quanto servirà quest’oggi
al mio futuro, mi sfugge, ma desidero preparare con te il mio domani.
O Dio, che sei guida e difesa,
rimani sempre al mio fianco
e niente mi potrà più fare paura.
(“La mia voce sale a te, Signore” –
Il salmo 91 riletto da un giovane) |
CONTEMPLATIO
Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo
mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione
del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù. È
Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in
silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!
Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio Padre Onnipotente,
nell’unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.
Amen
ACTIO
Mi
impegno a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.
Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò
che si è meditato diventa ora vita!
Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.
Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da
Gesù: Padre Nostro...
Arrivederci!
(spunti liberamente tratti da una lectio di don Giuseppe Pulcinelli, della
Chiesa di Roma)