RITIRO ON LINE                                                                                                   
luglio 2017

                                                                                                                                                                                                                                                

 

Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso.   Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi. 

 

Converti il mio cuore a te, Signore.

 

Che io cerchi te,

 

mi percepisca amato da te

 

e ami tutti in te.


 

Fammi capire che è davvero ricco

non chi elemosina amore e comprensione

ma chi vive per donarli.

 

 Veni, Sancte Spiritus, Veni, per Mariam.

 

 

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“Le donne sono quelle del Vangelo di Luca;

la gioia è quella che scaturisce dal loro incontro con Gesù”

 

Proseguiamo la preghiera suggerita da alcune lectio tratte da episodi del Vangelo di Luca, nelle quali il filone comune è la GIOIA DELLE DONNE CHE INCONTRANO GESU’.

Oggi lasciamoci toccare dall’incontro tra la vedova di Nain e Gesù.

 Queste riflessioni sono liberamente tratte da alcune lectio di don Davide Caldirola, della Chiesa di Milano.

 Buona meditazione e buona preghiera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LECTIO Apro la Parola di Dio e leggo in piedi i brani che mi vengono proposti.  (Luca 7,11-17)

 

In seguito Gesù si recò  in  una  città  chiamata  Nain,  e con lui camminavano i suoi  discepoli  e una grande  folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore  fu  preso  da grande compassione  per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano  Dio, dicendo: «Un  grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse  per tutta quanta la Giudea e in tutta la  regione circostante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MEDITATIO   Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente. Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona più sacra e più lunga del nostro Ritiro On Line: il grande silenzio !  Il protagonista è lo Spirito Santo.

 Il modo migliore per assaporare un brano delle Scritture è accoglierlo in noi come un cibo nutriente per il nostro spirito, è avere la certezza che sia Dio a volerci parlare per farci entrare nelle dimensioni del suo disegno di amore e di salvezza. Se ascoltiamo attentamente la Parola potremo entrare in un rapporto vivo con il Padre, per lasciarci plasmare dal suo stesso "cuore".

 

 

La vedova di Nain: la vita che ricomincia

(Luca 7,11-17)

 

La parola spezzata

Se entriamo immediatamente nel vivo della scena descritta da Luca cogliamo anzitutto l'imbarazzo che vivono Gesù e il suo seguito. Gesù si recò  in  una  città  chiamata  Nain,  e con lui camminavano i suoi  discepoli  e una grande  folla. Il loro è un corteo felice, che si muove da una città all'altra con leggerezza. La parola del Maestro è convincente, la sua azione è efficace e forte. Le cose hanno iniziato a filare per il verso giusto dopo il difficile esordio di Nazaret.

Ma questo corteo si scontra, più che incontrarsi, alle porte della città di Nain con un altro corteo. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. È il corteo che porta alla sepoltura un giovane, figlio unico di madre vedova. Difficile immaginare di peggio.

Da qui nasce l'imbarazzo. È lo stesso che noi percepiamo in molte occasioni della vita. Ci capita di ricevere una brutta notizia nel corso di una festa: di colpo tutta l'allegria sembra fuori luogo. Ci capita di ridere ad alta voce e non ci siamo accorti che sta passando un funerale per strada, e ci sentiamo in colpa di essere felici. La nostra gioia, per un istante, ci sembra ingiusta, un sopruso nei confronti di chi non può difendersi dal dolore, un affronto a chi può soltanto piangere.

Crediamo sia bene avvertire questo imbarazzo. Non per alimentare sensi di colpa inutili, e nemmeno per disimparare a gioire e a godere. Piuttosto per renderci conto di quanto sia fragile la nostra gioia, di quanto sia legata a un soffio. Bene dice Qoelet: Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio…Ma anche questo è vanità e un correre dietro al vento! (Qo 2,24.26)

 L'imbarazzo dei discepoli, condiviso da Gesù, ci porta subito nel cuore della vicenda e ci ricorda come tutto ci possa essere strappato in un istante. Vivere significa esporsi a queste sorprese, riconoscere di essere appesi a un niente. Un incidente, una malattia, una catastrofe naturale e tutto cade, tutto crolla. Un attimo prima eri in testa a un  corteo di canti e di  balli; un  istante dopo sei in mezzo a un'assemblea  in lacrime.

In più di un occasione Gesù mostra di comprendere alla perfezione questa fragilità dell'uomo e dei giorni. E di non temere di accostarla alla bellezza e alla grandezza della vita. «Due passeri non si vendono forse per un soldo?... »; «Guardate i fiori del campo... ». Gesù non teme la fragilità; lui stesso è uomo che percepisce poco alla volta il destino di morte che lo attende. Ma in questa fragilità scorge segni di grande bellezza. È un modo di guardare unico, sorprendente. Solo chi porta nel cuore grandi passioni riesce a tenere insieme fragilità e bellezza, a non spaventarsi dell'una e a non perdersi nell'altra. «Cos'è l'uomo?... Eppure... » (Salmo 8).

La compassione di Gesù si esprime in un mondo che passa, si riversa su creature mortali, destinate a perire, ma amate singolarmente da lui.

 

La morte di un figlio

Il testo di Luca ci regala delle annotazioni preziose riguardo a questo giovane, a questo «figlio».

«Veniva portato alla tomba». È l'ultimo atto di  giorni interi di pianti e di lutti. È l'estremo congedo dalla madre: presto sarà sottratto perfino alla sua vista. Rimarrà solo il ricordo di lui. È il momento in cui alla fase acuta del dolore si aggiunge anche la disperazione di non avere sotto gli occhi nemmeno il corpo di chi si ama. Alla madre resterà solo un luogo per piangere. Sarà l'unica sua terra, l'unico suo affetto.

Di questo giovane non si dice il nome, né l'età. Non c'è alcun segno che ci permetta di identificarlo. Può diventare l'emblema della morte ingiusta:  non  è così che deve funzionare. È il simbolo di una storia distrutta,  cancellata.

La morte di un figlio stravolge l'ordine naturale delle cose, il ritmo giusto della vita. Turba la ragionevolezza dell'esistenza: è impossibile farsene una ragione. In questo caso c'è un' aggravante seria. È unico, è il solo. Condizione rara all'epoca, e per questo ancora più tragica, qualunque siano le cause di questo suo essere «unico»: un marito morto troppo presto, il parto in tarda età, la difficoltà a generarne altri... Fatto sta che ci possiamo immaginare l'attaccamento della  madre  nei  confronti del figlio. Per lei è tutto: è la sua possibilità di riscatto dal fallimento, di gioia dell'esistenza, di un futuro non di solitudine assoluta. Unico vuol dire anche solo: è il solo appoggio, la sola sicurezza per la solitudine della madre.

La tragedia risalta ancor più dall'annotazione della gran folla che era con lei: una folla che non potrà mai colmare un vuoto abissale.

Anche la donna non viene descritta. È semplicemente in mezzo a questa folla, o meglio: in prima fila. Non c'è bisogno di dire che è disperata. Luca non annota nemmeno che sta piangendo. La sua solitudine è totale, nonostante la presenza di tanta gente. L'unico che conta non c'è più. Non ha perso il figlio: ha perso tutto. È vedova, e questo è come dire che la sua vita è chiusa, in parabola  soltanto discendente.

 

Gesù si avvicina

Gesù entra in scena all'improvviso. Vedendola, il Signore  fu  preso  da grande compassione  per lei e le disse: «Non piangere! » “. La folla non conta più nulla, e si apre uno spazio di intimità inaudito tra Gesù e questa donna.

Luca annota subito: «Vedendola». Gesù vede solo lei: restituisce un rapporto personale a colei che ha perduto il solo che conta. La vede davvero: non come la vede la gente, non come si vede un caso pietoso, ma una persona e basta. Tante altre volte Gesù crea questo spazio vitale,  personale  pur in mezzo a tanta gente.

E subito le dice: «Non piangere». Ha senso dire una parola così, addirittura una parola più forte del «perché piangi?» del mattino di Pasqua? Ha senso solo se si ha una parola che sa andare oltre le lacrime. Anche nel capitolo 8, di fronte alla bambina defunta Gesù dice «non piangete». Eppure Gesù stesso piange di fronte all'amico Lazzaro o alla città di Gerusalemme. Non c'è allora una polemica con le lacrime o col pianto (a volte quasi doveroso di fronte alla morte). È piuttosto il coraggio di dire che le lacrime non sono l'ultima parola sulla vita di un uomo. C'è una stagione che va oltre le lacrime.

Entra in gioco, dunque, la compassione di Gesù. È esplicitamente nominata, ed è uno dei sentimenti più forti del Maestro, la molla di molte delle sue azioni.

Gesù può dire a un altro «non piangere» perché anche a lui viene da piangere e sta piangendo dentro; prova interiormente il dolore e le lacrime che la madre esprime all'esterno. Ed entra in questo dolore senza fuggire, con i gesti della misericordia e della vita.

Prima di tutto si avvicina; non fugge, non va via. Resta. Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!».” . E tocca il giovane senza vita, quasi a fermare la morte che lo vuole portar via; una morte di cui mostra di non avere paura.

E gli parla personalmente. «Dico a te». A chi l'avrebbe dovuto dire? Ma ha senso parlare a un morto? Sì, per Gesù un senso c'è, perchè la sua voce e la sua parola sono più forti della morte.

Ed ecco, dunque, il prodigio della risurrezione: Il morto si mise seduto e cominciò a parlare.  Il giovane - ridestato - non si alza, ma si siede, quasi come se il miracolo non fosse ancora compiuto. Si mette a parlare: dice una parola, non una lode a Dio, forse soltanto per reagire alla paura. E finalmente viene restituito alla madre: “Ed egli lo restituì a sua madre”.

È allora che si compie il miracolo: quando il giovane non soltanto riprende vita, ma viene riconsegnato al mondo dei suoi affetti, e fatto uscire dalla solitudine che ogni morte porta sempre con sé. È restituito a una vita che rimane comunque fragile, che sarà sempre segnata dal timore per quanto è accaduto e dalla riconoscenza per il miracolo avvenuto.

 

Dalla mensa della parola, briciole di gioia

Un racconto di risurrezione regala sempre una gioia difficile,  perché maturata  attraverso l'esperienza della morte, tra il dolore, le lacrime e il pianto. Il testo di Luca ci offre, in questo caso, alcune coordinate interessanti, per raccogliere una gioia possibile in mezzo alla desolazione.

 

La gioia di sentirsi capiti

Il primo spunto ci viene offerto dallo sguardo di Gesù. In mezzo a tanta confusione, vede l'unica cosa che conta: le lacrime della madre. Se abbiamo fatto un'esperienza simile, non la possiamo dimenticare. C'è qualcuno che ha visto il nostro pianto, che l'ha capito, che l'ha raccolto. È arrivato al centro del nostro cuore, ed è stato capace di offrirci tutto il suo affetto in mezzo al dramma. C'è la gioia di sentirsi capiti. Quando Gesù vede questa donna e le dice «non piangere», il miracolo non è ancora avvenuto, il figlio non si è ridestato. Non c'è ancora la gioia sovrabbondante e inattesa della risurrezione, ma si fa strada quella più soffusa e discreta della consolazione. A qualcuno le mie lacrime interessano davvero. Non è qui per una rapida condoglianza di prammatica, per un vago senso del dovere di fronte a un evento luttuoso, o perché trascinato dall'emozione collettiva di un lutto inaspettato che stupisce e colpisce.

È qui, e vede me. Questa gioia sussurrata legata al dolore conosciuto e raccolto è - certo - una gioia difficile. Difficile per chi offre consolazione, e anche per chi si dispone a riceverla, e non si chiude dentro la propria inguaribile tristezza, non si trincera dietro un pianto inconsolabile. Dalla vedova di Nain raccogliamo la gioia di sentirsi capita e la forza di lasciare uno spiraglio di luce in mezzo al buio di una tragedia senza fine.

 

Andare oltre il pianto

Un secondo motivo di gioia. C'è una possibilità di vita oltre le lacrime,  oltre gli eventi  che ci  derubano.

Nel caso della donna di cui ci parla il vangelo questa possibilità è ridata intera, oltre ogni ragionevole previsione. Nella nostra vita non capita mai così. Eppure è possibile aiutare (o lasciarci aiutare) ad andare oltre il pianto. Anche in questo caso, più che alle parole, possiamo fare riferimento all'esperienza della vita. Di sicuro qualcuno ci ha aiutato a ricostruirci dopo un dramma, ha pazientato con noi dopo un evento che ci aveva chiuso il cuore. Poco alla volta ci ha insegnato di nuovo a sorridere, a ritrovare il gusto delle cose, a godere dei piccoli e grandi tesori della vita. Ci sono persone che dimostrano un'abilità straordinaria a guarire con pazienza, che sono in grado di attuare una paziente «fisioterapia dello spirito» e ad accompagnare  poco alla volta verso la luce anche i cammini più segnati, le vite più straziate. Offrire e lasciarsi offrire un ritaglio di gioia possibile in mezzo al dolore: è un buon compito e una straordinaria opportunità per chi vuole seguire il Maestro.

 

La gioia della restituzione

Infine il testo di Luca ci invita a raccogliere la gioia della restituzione.

Anzitutto la gioia di restituire agli affetti, che significa offrire all'altro una storia. Abbiamo già avuto modo di notarlo: il miracolo si compie quando il fanciullo è ridato alla madre. Cosa gli sarebbe servita una nuova vita se avesse dovuto passarla da solo?

 Capita di incontrare persone i cui affetti sono stati feriti, traditi; altre che hanno subito violenze di ogni tipo nella loro sfera più intima; altre ancora che si sono negate all'amore (per paura, o per mille altri motivi), o che hanno ricevuto un'«educazione» talmente rigida e sospettosa da condurle a mettere in archivio tutto quanto legato ai sentimenti, alle emozioni, alle relazioni profonde. Ed è grande la gioia quando si capisce che al di là di una storia faticosa o traumatica l'amore non  è morto, e riaffiora in  tutta  la sua forza. È bello vedere persone rifiorire, cambiare aspetto, rinascere perché un affetto vero le ha restituite alla vita. Qualcuno - forse - ci ha regalato la gioia di vivere semplicemente perché ci ha voluto  bene, e il suo bene ci ha restituito la capacità di voler bene.

 

La restituzione della “parola”

Raccogliamo  dal  testo di Luca la «restituzione della parola». Il giovane, appena ridestato dalla morte, si mette a parlare. È la sua prima reazione spontanea, il suo modo di affermare a se stesso e agli altri la realtà di una vita che miracolosamente riprende a fluire. Luca giustamente non ci dice nulla sul contenuto di queste parole. Non è così importante conoscerlo. Decisivo è invece comprendere come «dare la vita» coincida anzitutto col «dare la parola». E come sia vero il contrario: dare la parola all'altro significa dargli la vita, affermare la sua esistenza, la sua dignità, la sua importanza.

C'è un clamoroso malinteso, a volte, che attraversa perfino le nostre chiese, le coscienze dei cristiani più convinti: quello che porta a pensare che dare la parola all'altro significa toglierla a Cristo. In realtà Cristo non ha mai tolto la parola a nessuno. Si può dire - e il vangelo ce lo ricorda - che di fronte alla sua sapienza gli altri ammutolivano, non avevano più argomenti da opporre. Ma la prassi di Gesù è sempre stata quella di sciogliere la lingua dei muti, ascoltare il grido dei sofferenti, interpellare e porre questioni agli amici e a chi gli era ostile, porsi in ascolto della parola dell'altro, di Dio, dalla natura che lo circondava.

C'è la gioia di dare la parola, di permettere  all'altro di dire ciò che pensa, di ascoltarlo. C'è la gioia di tacere perché un altro possa raccontare, di ascoltare perché un altro si possa sentire accolto, di rinunciare a dire troppo perché l'altro possa regalarmi qualcosa di suo. Si resta sempre un pochino perplessi di fronte alle persone che hanno sempre qualcosa da rettificare o da aggiungere, da precisare o da correggere; quelli che vogliono sempre avere l'ultima parola, che perdono la misura  di quando è opportuno parlare e quando ascoltare e tacere. Anche se si hanno ancora molte cose da dire. Penso anche alla bellezza di ascoltare le confidenze, i racconti, i ricordi di un altro, alla grazia di riascoltare la parola di Dio detta  e commentata dalle labbra e dalla vita di un fratello o di una sorella: tutte gioie che nascono e crescono dall'attitudine a restituire  il dono della parola.

 

La gioia di ringraziare

Infine è bello poter restituire l'altro alla gratitudine. Il testo di per sé non lo dice: non c'è un grazie esplicito né della madre né del fanciullo; piuttosto si ricordano le parole di lode del popolo e la fama di Gesù che si diffonde. Ma ci piace pensare così: che nella vita non ho e non avrò sempre la felicità di restituire un bene ricevuto, ma mi auguro di mantenere sempre nel cuore la capacità e la gioia di ringraziare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ORATIO Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.

 

O Gesù, ti benedico e ti rendo lode

perché sei la misericordia

che incontra la mia miseria,

se la bontà e la tenerezza di Dio padre

che viene a visitarmi

come un sole che sorge dall'alto.

Tu che a Nain hai trasformato

le lacrime in gioia,

donami un cuore capace

di impietosirsi

 

sulle miserie degli altri,

un cuore che viva per l'amore

di te e dei fratelli.

Fà che mi impegni a sollevare le pene

di tutti coloro che metti sul mio cammino.

Consola coloro che piangono,

dà forza agli ammalati,

ricordati di coloro

che vivono dimenticati.

 

 (don Canio Calitri)       

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

CONTEMPLATIO     Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù.  È Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!

 

Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio Padre Onnipotente,  

nell’unità dello Spirito Santo,

ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.  Amen

 

 

 

 

 

 

 

 

ACTIO     Mi impegno a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.

Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!

Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.

Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da Gesù: Padre Nostro...

Arrivederci!  

 

(spunti liberamente tratti da alcune lectio di don Davide Caldirola, della Chiesa di Milano)

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