Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso. Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi.
Converti il mio cuore a te, Signore.
Che io cerchi te,
mi percepisca amato da te
e ami tutti in te. |
Fammi capire che è davvero ricco non chi elemosina amore e comprensione ma chi vive per donarli.
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“Le donne sono quelle del Vangelo di Luca;
la gioia è quella che scaturisce dal loro incontro con Gesù”
Proseguiamo la preghiera suggerita da alcune lectio tratte da episodi del
Vangelo di Luca, nelle quali il filone comune è la GIOIA DELLE DONNE CHE
INCONTRANO GESU’.
Oggi lasciamoci toccare dall’incontro tra la vedova di Nain e Gesù.
Queste
riflessioni sono liberamente tratte da alcune lectio di don Davide Caldirola,
della Chiesa di Milano.
Buona
meditazione e buona preghiera.
LECTIO Apro
la Parola di Dio e leggo in piedi i brani che mi vengono proposti.
(Luca
7,11-17)
In seguito Gesù si recò in
una città
chiamata Nain,
e con lui camminavano i suoi
discepoli e una grande
folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla
tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della
città era con lei. Vedendola, il Signore
fu preso
da grande compassione per
lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori
si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto
e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da
timore e glorificavano Dio,
dicendo: «Un grande profeta è sorto
tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse
per tutta quanta la Giudea e in tutta la
regione circostante.
MEDITATIO
Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente.
Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona
più sacra e più lunga del nostro Ritiro On Line:
il grande
silenzio ! Il protagonista è lo Spirito
Santo.
Il
modo migliore per assaporare un brano delle Scritture è accoglierlo in noi
come un cibo nutriente per il nostro spirito, è avere la certezza che sia
Dio a volerci parlare per farci entrare nelle dimensioni del suo disegno di
amore e di salvezza. Se ascoltiamo attentamente la Parola potremo entrare in
un rapporto vivo con il Padre, per lasciarci plasmare dal suo stesso
"cuore".
La vedova di Nain: la vita che ricomincia
(Luca 7,11-17)
La parola spezzata
Se entriamo immediatamente nel vivo della scena
descritta da Luca cogliamo anzitutto l'imbarazzo che vivono Gesù e il suo
seguito.
“Gesù si recò
in
una
città
chiamata
Nain,
e con lui camminavano i suoi
discepoli
e una grande
folla”.
Il loro è un corteo felice, che si muove da una città all'altra con leggerezza.
La parola del Maestro è convincente, la sua azione è efficace e forte. Le cose
hanno iniziato a filare per il verso giusto dopo il difficile esordio di
Nazaret.
Ma questo corteo si scontra, più che incontrarsi,
alle porte della città di Nain con un altro corteo.
“Quando
fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto,
unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei”.
È il corteo che porta alla sepoltura un giovane, figlio unico di madre vedova.
Difficile immaginare di peggio.
Da qui nasce l'imbarazzo.
È lo stesso che noi percepiamo in molte occasioni della vita. Ci capita di
ricevere una brutta notizia nel corso di una festa: di colpo tutta l'allegria
sembra fuori luogo. Ci capita di ridere ad alta voce e non ci siamo accorti che
sta passando un funerale per strada, e ci sentiamo in colpa di essere felici. La
nostra gioia, per un istante, ci sembra ingiusta, un sopruso nei confronti di
chi non può difendersi dal dolore, un affronto a chi può soltanto piangere.
Crediamo sia bene avvertire questo imbarazzo. Non per
alimentare sensi di colpa inutili, e nemmeno per disimparare a gioire e a
godere. Piuttosto per renderci conto di quanto sia fragile la nostra gioia, di
quanto sia legata a un soffio. Bene dice Qoelet:
“Non
c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue
fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio…Ma anche
questo è vanità e un correre dietro al vento!”
(Qo 2,24.26)
In più di un occasione Gesù mostra di comprendere
alla perfezione questa fragilità dell'uomo e dei giorni. E di non temere di
accostarla alla bellezza e alla grandezza della vita.
«Due
passeri non si vendono forse per un soldo?...
»;
«Guardate
i fiori del campo... ».
Gesù non teme la fragilità; lui stesso è uomo che percepisce poco alla volta il
destino di morte che lo attende. Ma in questa fragilità scorge segni di grande
bellezza. È un modo di guardare unico, sorprendente. Solo chi porta nel cuore
grandi passioni riesce a tenere insieme fragilità e bellezza, a non spaventarsi
dell'una e a non perdersi nell'altra.
«Cos'è
l'uomo?... Eppure... »
(Salmo 8).
La compassione di Gesù si
esprime in un mondo che passa, si riversa su creature mortali, destinate a
perire, ma amate singolarmente da lui.
La morte di un figlio
Il testo di Luca ci
regala delle annotazioni preziose riguardo a questo giovane, a questo «figlio».
«Veniva portato alla tomba».
È l'ultimo atto di
giorni interi di pianti e di lutti. È
l'estremo congedo dalla madre: presto sarà sottratto perfino alla sua vista.
Rimarrà solo il ricordo di lui. È il momento in cui alla fase acuta del dolore
si aggiunge anche la disperazione di non avere sotto gli occhi nemmeno il corpo
di chi si ama. Alla madre resterà solo un luogo per piangere. Sarà l'unica sua
terra, l'unico suo affetto.
Di questo giovane non si dice il nome, né l'età. Non
c'è alcun segno che ci permetta di identificarlo. Può diventare l'emblema della
morte ingiusta:
non
è così che deve funzionare. È il simbolo di
una storia distrutta,
cancellata.
La morte di un figlio stravolge l'ordine naturale
delle cose, il ritmo giusto della vita. Turba la ragionevolezza dell'esistenza:
è impossibile farsene una ragione. In questo caso c'è un' aggravante seria. È
unico, è il solo. Condizione rara all'epoca, e per questo ancora più tragica,
qualunque siano le cause di questo suo essere «unico»: un marito morto troppo
presto, il parto in tarda età, la difficoltà a generarne altri... Fatto sta che
ci possiamo immaginare l'attaccamento della
madre
nei
confronti del figlio. Per lei è tutto: è la
sua possibilità di riscatto dal fallimento, di gioia dell'esistenza, di un
futuro non di solitudine assoluta. Unico vuol dire anche solo: è il solo
appoggio, la sola sicurezza per la solitudine della madre.
La tragedia risalta ancor
più dall'annotazione della gran folla che era con lei: una folla che non potrà
mai colmare un vuoto abissale.
Anche la donna non viene descritta. È semplicemente
in mezzo a questa folla, o meglio: in prima fila. Non c'è bisogno di dire che è
disperata. Luca non annota nemmeno che sta piangendo. La sua solitudine è
totale, nonostante la presenza di tanta gente. L'unico che conta non c'è più.
Non ha perso il figlio: ha perso tutto. È vedova, e questo è come dire che la
sua vita è chiusa, in parabola
soltanto discendente.
Gesù si avvicina
Gesù entra in scena all'improvviso.
“Vedendola,
il Signore
fu
preso
da grande compassione
per lei e le disse: «Non piangere!
» “. La
folla non conta più nulla, e si apre uno spazio di intimità inaudito tra Gesù e
questa donna.
Luca annota subito:
«Vedendola».
Gesù vede solo lei: restituisce un rapporto personale a colei che ha perduto il
solo che conta. La vede davvero: non come la vede la gente, non come si vede un
caso pietoso, ma una persona e basta. Tante altre volte Gesù crea questo spazio
vitale,
personale
pur in mezzo a tanta gente.
E subito le dice:
«Non
piangere».
Ha senso dire una parola così, addirittura una parola più forte del «perché
piangi?» del mattino di Pasqua? Ha senso solo se si ha una parola che sa andare
oltre le lacrime. Anche nel capitolo 8, di fronte alla bambina defunta Gesù dice
«non
piangete».
Eppure Gesù stesso piange di fronte all'amico Lazzaro o alla città di
Gerusalemme. Non c'è allora una polemica con le lacrime o col pianto (a volte
quasi doveroso di fronte alla morte). È piuttosto il coraggio di dire che le
lacrime non sono l'ultima parola sulla vita di un uomo. C'è una stagione che va
oltre le lacrime.
Entra in gioco, dunque,
la compassione di Gesù. È esplicitamente nominata, ed è uno dei sentimenti più
forti del Maestro, la molla di molte delle sue azioni.
Gesù può dire a un altro
«non piangere» perché anche a lui viene da piangere e sta piangendo dentro;
prova interiormente il dolore e le lacrime che la madre esprime all'esterno. Ed
entra in questo dolore senza fuggire, con i gesti della misericordia e della
vita.
Prima di tutto si avvicina; non fugge, non va via.
Resta. “Si
avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo,
dico a te, àlzati!».”
. E tocca il giovane senza vita, quasi a fermare la morte che lo vuole portar
via; una morte di cui mostra di non avere paura.
E gli parla personalmente.
«Dico
a te».
A chi l'avrebbe dovuto dire? Ma ha senso parlare a un morto? Sì, per Gesù un
senso c'è, perchè la sua voce e la sua parola sono più forti della morte.
Ed ecco, dunque, il prodigio della risurrezione:
“Il
morto si mise seduto e cominciò a parlare”.
Il giovane - ridestato - non si alza, ma si
siede, quasi come se il miracolo non fosse ancora compiuto. Si mette a parlare:
dice una parola, non una lode a Dio, forse soltanto per reagire alla paura. E
finalmente viene restituito alla madre: “Ed
egli lo restituì a sua madre”.
È allora che si compie il
miracolo: quando il giovane non soltanto riprende vita, ma viene riconsegnato al
mondo dei suoi affetti, e fatto uscire dalla solitudine che ogni morte porta
sempre con sé. È restituito a una vita che rimane comunque fragile, che sarà
sempre segnata dal timore per quanto è accaduto e dalla riconoscenza per il
miracolo avvenuto.
Dalla mensa della parola, briciole di gioia
Un racconto di risurrezione regala sempre una gioia
difficile,
perché maturata
attraverso l'esperienza della morte, tra il
dolore, le lacrime e il pianto. Il testo di Luca ci offre, in questo caso,
alcune coordinate interessanti, per raccogliere una gioia possibile in mezzo
alla desolazione.
La gioia di sentirsi capiti
Il primo spunto ci viene
offerto dallo sguardo di Gesù. In mezzo a tanta confusione, vede l'unica cosa
che conta: le lacrime della madre. Se abbiamo fatto un'esperienza simile, non la
possiamo dimenticare. C'è qualcuno che ha visto il nostro pianto, che l'ha
capito, che l'ha raccolto. È arrivato al centro del nostro cuore, ed è stato
capace di offrirci tutto il suo affetto in mezzo al dramma. C'è la gioia di
sentirsi capiti. Quando Gesù vede questa donna e le dice «non piangere», il
miracolo non è ancora avvenuto, il figlio non si è ridestato. Non c'è ancora la
gioia sovrabbondante e inattesa della risurrezione, ma si fa strada quella più
soffusa e discreta della consolazione. A qualcuno le mie lacrime interessano
davvero. Non è qui per una rapida condoglianza di prammatica, per un vago senso
del dovere di fronte a un evento luttuoso, o perché trascinato dall'emozione
collettiva di un lutto inaspettato che stupisce e colpisce.
È qui, e vede me. Questa
gioia sussurrata legata al dolore conosciuto e raccolto è - certo - una gioia
difficile. Difficile per chi offre consolazione, e anche per chi si dispone a
riceverla, e non si chiude dentro la propria inguaribile tristezza, non si
trincera dietro un pianto inconsolabile. Dalla vedova di Nain raccogliamo la
gioia di sentirsi capita e la forza di lasciare uno spiraglio di luce in mezzo
al buio di una tragedia senza fine.
Andare oltre il pianto
Un secondo motivo di gioia. C'è una possibilità di
vita oltre le lacrime,
oltre gli eventi
che ci
derubano.
Nel caso della donna di cui ci parla il vangelo
questa possibilità è ridata intera, oltre ogni ragionevole previsione. Nella
nostra vita non capita mai così. Eppure è possibile aiutare (o lasciarci
aiutare) ad andare oltre il pianto. Anche in questo caso, più che alle parole,
possiamo fare riferimento all'esperienza della vita. Di sicuro qualcuno ci ha
aiutato a ricostruirci dopo un dramma, ha pazientato con noi dopo un evento che
ci aveva chiuso il cuore. Poco alla volta ci ha insegnato di nuovo a sorridere,
a ritrovare il gusto delle cose, a godere dei piccoli e grandi tesori della
vita. Ci sono persone che dimostrano un'abilità straordinaria a guarire con
pazienza, che sono in grado di attuare una paziente «fisioterapia dello spirito»
e ad accompagnare
poco alla volta verso la luce anche i cammini
più segnati, le vite più straziate. Offrire e lasciarsi offrire un ritaglio di
gioia possibile in mezzo al dolore: è un buon compito e una straordinaria
opportunità per chi vuole seguire il Maestro.
La gioia della restituzione
Infine il testo di Luca
ci invita a raccogliere la gioia della restituzione.
Anzitutto la gioia di
restituire agli affetti, che significa offrire all'altro una storia. Abbiamo già
avuto modo di notarlo: il miracolo si compie quando il fanciullo è ridato alla
madre. Cosa gli sarebbe servita una nuova vita se avesse dovuto passarla da
solo?
La restituzione della “parola”
Raccogliamo
dal
testo di Luca la «restituzione della parola».
Il giovane, appena ridestato dalla morte, si mette a parlare. È la sua prima
reazione spontanea, il suo modo di affermare a se stesso e agli altri la realtà
di una vita che miracolosamente riprende a fluire. Luca giustamente non ci dice
nulla sul contenuto di queste parole. Non è così importante conoscerlo. Decisivo
è invece comprendere come
«dare la vita»
coincida anzitutto col
«dare la parola».
E come sia vero il contrario: dare la parola all'altro significa dargli la vita,
affermare la sua esistenza, la sua dignità, la sua importanza.
C'è un clamoroso
malinteso, a volte, che attraversa perfino le nostre chiese, le coscienze dei
cristiani più convinti: quello che porta a pensare che dare la parola all'altro
significa toglierla a Cristo. In realtà Cristo non ha mai tolto la parola a
nessuno. Si può dire - e il vangelo ce lo ricorda - che di fronte alla sua
sapienza gli altri ammutolivano, non avevano più argomenti da opporre. Ma la
prassi di Gesù è sempre stata quella di sciogliere la lingua dei muti, ascoltare
il grido dei sofferenti, interpellare e porre questioni agli amici e a chi gli
era ostile, porsi in ascolto della parola dell'altro, di Dio, dalla natura che
lo circondava.
C'è la gioia di dare la parola, di permettere
all'altro di dire ciò che pensa, di
ascoltarlo. C'è la gioia di tacere perché un altro possa raccontare, di
ascoltare perché un altro si possa sentire accolto, di rinunciare a dire troppo
perché l'altro possa regalarmi qualcosa di suo. Si resta sempre un pochino
perplessi di fronte alle persone che hanno sempre qualcosa da rettificare o da
aggiungere, da precisare o da correggere; quelli che vogliono sempre avere
l'ultima parola, che perdono la misura
di quando è opportuno parlare e quando
ascoltare e tacere. Anche se si hanno ancora molte cose da dire. Penso anche
alla bellezza di ascoltare le confidenze, i racconti, i ricordi di un altro,
alla grazia di riascoltare la parola di Dio detta
e commentata dalle labbra e dalla vita di un
fratello o di una sorella: tutte gioie che nascono e crescono dall'attitudine a
restituire
il dono della parola.
La gioia di ringraziare
Infine è bello poter
restituire l'altro alla gratitudine. Il testo di per sé non lo dice: non c'è un
grazie esplicito né della madre né del fanciullo; piuttosto si ricordano le
parole di lode del popolo e la fama di Gesù che si diffonde. Ma ci piace pensare
così: che nella vita non ho e non avrò sempre la felicità di restituire un bene
ricevuto, ma mi auguro di mantenere sempre nel cuore la capacità e la gioia di
ringraziare.
ORATIO
Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla
meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa
preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti
gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano
ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.
O Gesù, ti benedico e ti rendo lode
perché sei la misericordia
che incontra la mia miseria,
se la bontà e la tenerezza di Dio padre
che viene a visitarmi
come un sole che sorge dall'alto.
Tu che a Nain hai trasformato
le lacrime in gioia,
donami un cuore capace
di impietosirsi
sulle miserie degli altri,
un cuore che viva per l'amore
di te e dei fratelli.
Fà che mi impegni a sollevare le pene
di tutti coloro che metti sul mio
cammino.
Consola coloro che piangono,
dà forza agli ammalati,
ricordati di coloro
che vivono dimenticati.
(don Canio Calitri)
CONTEMPLATIO
Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo
mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione
del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù. È
Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in
silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!
Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio Padre Onnipotente,
nell’unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.
Amen
ACTIO
Mi impegno
a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.
Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò
che si è meditato diventa ora vita!
Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.
Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da
Gesù: Padre Nostro...
Arrivederci!
(spunti liberamente tratti da alcune lectio di don Davide Caldirola, della
Chiesa di Milano)