Venero la Parola di Dio, l’Icona ed il Crocifisso.
Traccio sulla mia persona il Segno della mia fede, il Segno della Croce, mi metto alla presenza del Signore che vuole parlarmi.
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e ammirare il suo santuario.
Nella sua dimora mi offre riparo
nel giorno della sventura.
Mi nasconde nel segreto della sua tenda,
sopra una roccia mi innalza.
E ora rialzo la testa.
Immolerò nella sua tenda sacrifici di vittoria,
inni di gioia canterò al Signore.
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il mio cuore ripete il tuo invito:
«Cercate il mio volto!».
Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.
Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato,
ma il Signore mi ha raccolto.
Mostrami, Signore, la tua via,
guidami sul retto cammino.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.
(dal Salmo 27 )
Veni, Sancte Spiritus
Veni, per Mariam.
INTRODUZIONE: l’itineranza
L’itineranza caratterizza molte delle grandi figure bibliche.
Verrebbe da pensare che si tratta di un elemento strutturale della fede. Se così fosse, non si darebbe esperienza credente senza una qualche forma di itineranza. Questa constatazione sembra possa valere anche per la vita umana in generale: quando incontriamo la realtà (degli altri, del mondo, di Dio…) essa ci interpella, ci chiama fuori, spinge, mette in movimento. Inevitabilmente. Uscire, muoversi, itinerare, cercare, sono dunque modi fondamentali dell’umanizzazione.
La rivelazione di Dio nella storia di Israele, e poi soprattutto nella vicenda di Gesù e della sequela dei suoi discepoli, mostra come il Signore stesso sia itinerante, in movimento verso di noi e con noi. E non riguarda solo noi in quanto uomini, ma riguarda anche Dio in quanto «persona». Diventare persona, cioè esistere come relazione, presuppone l’uscita da sé per incontrare l’altro. E questo vale per gli uomini non solo perché sono esseri limitati, ma in quanto sono «immagine» di Dio. E’ Lui il primo che – se così si può dire – per incontrare l’altro esce da se stesso. Il vivere autentico è dunque esperienza e quindi al suo inizio, e poi ancora molte volte lungo il cammino, la vita è caratterizzata appunto dall’uscire, dall’attraversare, dall’oltrepassare.
Uscire da cosa? L’evento fondatore dell’esodo dice «uscita dalla schiavitù», dal peccato, dall’ignoranza di Dio e degli altri… L’incontro con Dio fa uscire e mette in cammino e perciò chiede l’«abbandono» del «padre» (e della «madre»), chiede di prendere le distanze dal proprio ideale di paternità / maternità come movimento necessario alla libertà di sé e degli altri. Chiede insomma una presa di distanza dai legami che ci hanno dato un inizio, anche dal legame con il Creatore, come movimento necessario alla verità dell’incontro / degli incontri che assegnano un senso (una direzione) alla vita. Questo movimento è necessario per poter incontrare davvero altre persone, ma anche per riuscire a ritrovare nuovamente quelle che ci hanno generato.
L’itineranza comporta il passare anche attraverso momenti di «erranza». E’ una ricerca, e come tale essa ha momenti di blocco, smarrimento e anche regressione. Soprattutto in questi momenti sono le «presenze fraterne» che incontriamo a riorientare il nostro cammino:
Nelle figure bibliche l’itineranza si attiva / si riattiva, o più spesso c’è già e allora prende il suo orientamento decisivo – senza che questo comporti automaticamente da quel momento in avanti alcuna continuità lineare – a partire da un particolare incontro con Dio o con un suo mediatore. Per questo nelle riflessioni che seguono cercheremo di prendere le mosse da testi che «fotografano» il momento decisivo di questo incontro (vocazione). Tale momento può accadere all’inizio di una vicenda. Ma per quello che si legge nella Bibbia quasi sempre si dà in età adulta, a volte addirittura verso la fine di un’esistenza (vedi per esempio l’incontro tra Simeone e il neonato Gesù al Tempio: Luca 2,25ss). Sempre implica «uscite» (separazioni e liberazioni) che, ora più ora meno, suscitano resistenze.
In radice l’itineranza è allora «luogo» di rivelazione: di Dio, degli altri, di sé. Personaggi diversi realizzano itineranze diverse. L’elemento personale è sempre decisivo. Perciò in ogni itineranza c’è come un imperativo che la caratterizza.
E’ determinante per l’itineranza che se ne colga la «figura» dietro la narrazione. In altri termini essa potrà istruire la nostra esperienza di vita e di fede solo se se ne coglie la valenza spirituale. «Spirituale» non vuol dire però disincarnato, astratto. Tanto meno indica qualcosa di vago. Anzi, secondo la peculiarità ebraico-cristiana dell’esperienza dello Spirito l’itineranza non potrà mai prescindere da un qualche muoversi effettivo E qui il paradigma della missione ad gentes ritrova tutta la sua importanza.
LECTIO Apro la Parola di Dio e leggo in piedi il brano che mi viene proposto. (Gn 12,1-4)
1Il Signore disse ad Abram:
«Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. 2Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. 3Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra».
4Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. 5Abram prese la moglie Sarài e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso la terra di Canaan.
MEDITAZIO Seduto, rileggo la Parola per più volte, lentamente. Anche la lettura della Parola di Dio è preghiera. Siamo entrati in quella zona più sacra e più lunga del nostro Ritiro On Line: il grande silenzio ! Il protagonista è lo Spirito Santo.
Il modo migliore per assaporare un brano delle Scritture è accoglierlo in noi come un cibo nutriente per il nostro spirito, è avere la certezza che sia Dio a volerci parlare per farci entrare nelle dimensioni del suo disegno di amore e di salvezza.
Se ascoltiamo attentamente la Parola potremo entrare in un rapporto vivo con il Padre, per lasciarci plasmare dal suo stesso "cuore".
Abramo
Abramo è il primo ad essere chiamato a una storia personale di alleanza con Dio e la sua esistenza, dal momento della chiamata, prende la forma dell’itineranza. Ma, se siamo attenti al contesto e poi alla narrazione stessa della sua vicenda, egli non rappresenta un inizio assoluto né della fede né dell’itineranza. I racconti che precedono il ciclo di Abramo attestano infatti che la fede di Israele vedeva con molta chiarezza la possibilità di una relazione con il Signore. Sarà proprio attraverso il suo «andarsene» e gli incontri con figure di credenti che questo itinerare renderà possibili, che Abramo imparerà a dare un senso preciso alla sua elezione. Perciò il suo sarà un «andare verso se stesso» perché sarà un andare verso altri.
Vattene… dalla casa di tuo padre
Per quale motivo la parola del Signore si rivolga ad Abramo è un mistero, il mistero della sua libera elezione. Potremmo pensare che Dio abbia scelto lui perché era il migliore, ma i testi non sostengono questa ipotesi. Anzi, Dio non sceglie il primo, e neppure il migliore; e la sua scelta non porta l’eletto ad essere il primo, e neppure il migliore.
Non possiamo sapere perché Dio abbia scelto Abramo. Possiamo solo essere incuriositi da questa scelta e stare a guardare come se la caverà il nostro uomo (tutto sommato piuttosto mediocre) alle prese con il Signore. Quello che è possibile invece constatare subito è come questa chiamata metta in movimento il patriarca. Non solo lo fa muovere, ma gli chiede esplicitamente di andare: «Vattene…verso la terra che io ti indicherò», dice il Signore, e «Abramo partì…verso la terra di Canaan». Questo movimento è in prima battuta uno spostamento geografico «dalla tua terra verso la terra che io ti indicherò». Tuttavia il fatto che esso implichi l’abbandono di «terra / paese / patria / casa di tuo padre» denota come tale movimento sia insieme spaziale ed esistenziale. A settantacinque anni inizia per Abramo una nuova vita, e in questo senso si tratta davvero di un inizio. Ma l’emancipazione dal «padre» non si realizzerà per Abramo se non verso la fine della sua vita. Quel «vattene…dalla casa di tuo padre» che si ode all’inizio è come un programma di vita: quello della paternità. Solo così egli potrà sperimentare la benedizione di Dio: per sé e per molti altri (il testo dice addirittura tutti gli altri), anzi per sé solo attraverso e con molti altri.
In realtà Abramo è preceduto da una storia, cioè ha un’ascendenza, che ci dice qualcosa di importante per capire anche la grande novità che segna la sua vita (Gn 11).
Raccogliamo qualche dato, anche se non li svilupperemo:
Cosa lascia Abramo quando parte da Carran? Non suo padre che è già morto. Lascia una «patria» che per altro è la sua seconda patria. Ma quello che più importa è che in questa partenza viene ripreso un vecchio progetto del padre Terach che non aveva trovato realizzazione. Abramo vuole dunque fare meglio di suo padre, ma in continuità con il progetto di lui. Partendo, poi, prende con sé tutto quello che Terach aveva portato a Carran durante la prima migrazione. Il meno che si può dire di questa famiglia è che è un po’ chiusa su un progetto patriarcale, che ogni volta cerca la sua realizzazione anche a costo di perdere per strada i pezzi che non si adeguano all’ideale (Nacor, un figlio lasciato ad Ur!).
Per stanare Abramo Dio gli promette quello che lui desidera e che in famiglia sembra sempre un po’ scarseggiare: la benedizione, cioè la fecondità, la vita. E insieme promette che così troverà se stesso. E’ inevitabile che Abramo partendo, in prima battuta abbia compreso il progetto di Dio secondo le coordinate della sua storia e del suo desiderio attuale, che non è sbagliato, ma che andrà educato dall’itineranza stessa. Parte per Canaan, ma nelle parole del Signore si ascoltava solo di un «paese che io ti indicherò». Nonostante questa indeterminazione della meta, quando parte Abramo sa esattamente dove andare perché, per lui, la destinazione «naturale» di una migrazione non può che essere quella.
Appena arrivato in Canaan, tuttavia, quello che sperimenta è la fame.
La terra si mostra poco ospitale e Abramo deve ripartire per sopravvivere. Va in Egitto «per soggiornarvi», non certo per starci qualche giorno. Pensa forse che il «paese che io ti indicherò» sia ora l’Egitto? Verrà cacciato dal faraone per il noto fatto della sposa-sorella. Quel che si vede è che seguire la promessa di Dio non risparmia ad Abramo la lotta per la vita. La fiducia viene subito messa alla prova e la liberazione propone un’assai difficile libertà. Ma Abramo non esiterebbe a dare anche la moglie pur di salvare la sua speranza in un futuro di «padre». Dio gli dovrà ricordare, e non una volta soltanto, che la promessa non potrà realizzarsi senza Sara. Non si genera un figlio senza una madre, e quella madre dovrà essere Sara. Abramo dovrà imparare che il figlio che avrà non sarà «suo», ma gli sarà donato.
Incontri sorprendenti lungo la strada
E’ proprio l’itineranza a educare Abramo. Ma ci vorranno più incontri e molto tempo giacché l’idea da scalzare è potente e quella nuova è troppo «strana». Vediamo brevemente due di questi incontri.
Melchisedek (Gn 14,17-20)
Che Abramo sia benedetto lo vedono prima di tutto altri. Se poi questo avviene è perché qualcuno che non è l’eletto misteriosamente conosce Dio e ne riconosce la traccia nel suo uomo.
Abimèlech (Gn 20,1-13)
Per apprezzare appieno la portata di questo episodio occorre sapere che siamo verso la fine del cammino di Abramo. Quello che era avvenuto appena all’inizio in Egitto si ripete ora dopo molto tempo. Per la seconda volta l’itineranza di Abramo mette a rischio Sara. Eppure a questo punto del suo cammino Abramo ha ricevuto la promessa di un figlio dai tre viandanti (e forse Sara a Gerar è già incinta!) e ha interceduto per Sodoma.
Anche Abimèlech si rivela un giusto. Lo dobbiamo dire: più giusto di Abramo. Interessa qui sottolineare due elementi. Il primo è lo scetticismo di Abramo: egli non crede che ci possa essere timor di Dio presso gli «stranieri» che incontra. Non ha fiducia nella coscienza altrui e non ha ancora accolto nel suo progetto il ruolo di Sara. Dichiarando la sua sfiducia ammette l’errore? Sta imparando quella umiltà che sola permette di «vedere» le tracce di Dio nella storia, anche laddove pensiamo non ce ne possano essere? Incomincia forse a comprendere che il Dio con il quale si è impegnato non è quasi mai dove dovrebbe essere e che è assai più nomade di lui? Il secondo elemento è che proprio qui riaffiora quanto Abramo ancora non abbia lasciato la «casa di suo padre». Per lui allontanarsi da quella casa vuole ancora dire «errare lontano», ma insieme significa voler mantenere un progetto patriarcale che esige la sua salvezza, anche a costo di perdere Sara. Il padre è lui; in mancanza di Sara (sterile!) un’altra madre si troverà (come è già accaduto con Agar). Insomma, sta camminando ma continua a guardare indietro.
La cosa più impressionante, però, è che Dio nonostante tutto questo, pur riconoscendo l’onestà di Abimèlech, dica al re di Gerar che la maledizione che lo ha colpito potrà essere allontanata soltanto dall’intercessione di Abramo. Lo chiama profeta e non ritira la sua elezione anche se Abramo si è mostrato indegno di essa. Abramo, pur nel torto, si trova a pregare per coloro che riteneva indegni della prossimità di Dio. E Dio prontamente lo ascolta, mostrando così quanto ami lui e la gente di Abimèlech.. Anche così Dio educa («e-duca» = conduce fuori) il suo eletto e semina benedizione.
Lasciare cosa?
Lasciare cosa? Andarsene da che cosa? Abramo deve abbandonare il suo progetto di paternità (e Sara quello di maternità, poiché con Agar e Ismaele anche lei ha dato pessima prova di sé): per evitare di proiettare su Dio la sinistra immagine del padre-padrone e per permettere finalmente l’incontro degli altri come fratelli e non come nemici (o «stranieri», che per definizione non sono dei nostri). Deve riconoscere che la sua vocazione alla paternità è chiamata ad essere un inizio, non l’origine; cura e servizio, non dominio. Abramo – come tutti noi – non crea, riceve in dono. Come Adamo con il giardino, gli animali, la donna: li nomina ed è chiamato a prendersene cura con regalità, ma non li crea. Li riceve in dono. E se se ne appropria al punto da diventarne il padrone che può farne quello che vuole, tradisce la sua stessa costituzione: neppure di sé Abramo ha potuto e può fare quello che voleva. Neppure Dio, per altro, fa di Abramo quello che vuole. Non gli sta addosso continuamente, non lo «lega», lo lascia andare
Perché si arrivi a comprendere questa buona immagine di padre, Dio mette alla prova Abramo chiedendogli in sacrificio il figlio Isacco. Per cancellare dal cuore del suo uomo l’immagine crudele di un Dio che vuole il sangue dei figli il Signore decide per un momento di incarnare questa immagine. (Gn 22,1-19)
Alla fine Abramo si trova in realtà a sacrificare la sua paternità. Ma non nel senso che l’uccisione di Isacco lo condurrebbe a non essere più padre, giacché uccidere il figlio non farebbe che confermare la peggiore immagine di Dio e di Abramo (non si mostra tanto più «padre» chi può esercitare sul figlio un diritto di vita e di morte?). Piuttosto nel senso che, uccidendo al posto del figlio un ariete (non un agnello che è il figlio della pecora, bensì un ariete che è il padre della pecora) e lasciando andare Isacco riconosce insieme che è Dio a dare la vita e che lui non ha potere sul figlio.
Sembra scendere dalla montagna da solo. Ormai il figlio è andato, libero di seguire la sua strada. E Abramo è libero dalla sua ossessione anche se c’è voluto lo spargimento di un sangue per ottenere la piena comprensione di questa libertà. Libero dall’ossessione della paternità (che è l’ossessione della propria personale permanenza, l’ossessione della «famiglia», e molto altro ancora) Abramo può finalmente diventare / riconoscersi figlio, che è la condizione originaria di tutti. Non ha incontrato persone che conoscono Dio meglio di lui e che gli hanno restituito immagini migliori di quelle che l’eletto si era fatto del suo Dio? Liberato dall’ambiguità di legami tanto forti da apparire «sacri», che mentre assegnano un’identità separano, l’eletto può vedere la benedizione (la relazione) di Dio per tutti i suoi figli. Ogni figlio di uomo e di donna è figlio di Dio, e la funzione dell’eletto è di rendere possibile a tutti l’accoglienza di questa ospitale paternità divina.
Quello che resta è la fede
In questo senso preciso Abramo realizza la sua paternità e insieme la sua itineranza. Lasciando andare il figlio come figlio di Dio, riconosce e rivela il fondamento della fraternità: “sperare contro ogni speranza”.
Quello che alla fine gli resta è la fede, cioè l’attesa di un compimento lasciato nelle mani di Dio Padre. E questa è anche la sua eredità per noi. Come deve essere quando si è figli, Abramo accetta la sua incompiutezza (vedi per contrasto Genesi 15: «che mi darai?» e l’epilogo della storia, dove tutto quello che ha è un figlio lasciato andare e una caverna per essere seppellito) e attende da Dio, come fa un figlio, ciò che gli serve per vivere. Passerà gli ultimi anni della sua vita semplicemente vivendo.
Aver fede è accogliere la propria incompiutezza. Ma questa accoglienza rende liberi (e benedicenti) solo se si accende davanti alla rivelazione della sovrabbondante bontà della paternità divina. Altrimenti la paura di non avere abbastanza per vivere ricaccia nella violenza, nell’invidia e nella ricerca del potere, ridicola maschera che tenta di nascondere la disperante esperienza della propria radicale pochezza. E che perverte il volto dell’altro (da fratello a nemico) e di Dio (da Padre a padrone).
ORATIO Domando umilmente di poter essere coerente con le indicazioni emerse dalla meditatio. Esprimo fede, speranza, amore. La preghiera si estende e diventa preghiera per i propri amici, per la propria comunità, per la Chiesa, per tutti gli uomini. La preghiera si può anche fare ruminando alcune frasi del brano ripetendo per più volte la frase/i che mi hanno fatto meditare.
Tutta questione di mani:
quelle del Padre.
L’uomo, anche adulto,
ha bisogno di essere preso per mano.
Soltanto che troppe volte si consegna, disarmato,
nelle mani sbagliate.
E diventa prigioniero
proprio quando pretende di essere libero.
Prigioniero si se stesso,
prima ancora che del Male.
Sembra quasi che qualcuno
abbia suggerito all’uomo
che le mani gli sono state date
in vista delle catene.
Padre, Tu mi insegni
ad abbandonarmi nelle tue mani,
perché io sia totalmente libero nell’amore.
Padre, fa che mi renda conto
che quando sbaglio mani,
quando perdo le tue mani,
io smarrisco la strada,
anzi non riesco più a camminare.
Mi restano, per fortuna, le tue mani.
Padre, non ho che le tue mani.
(Alessandro Pronzato)
CONTEMPLATIO Avverto il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarmi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di accogliere il suo amore per noi. È l’intuizione del regno di Dio dentro di me, la certezza di aver toccato Gesù.
È Gesù che ci precede, ci accompagna, ci è vicino, Gesù solo! Contempliamo in silenzio questo mistero: Dio si fa vicino ad ogni uomo!
Per Cristo, con Cristo e in Cristo
a te, Dio Padre Onnipotente,
nell’unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli.
AMEN
ACTIO Mi impegno a vivere un versetto di questi brani, quello che mi ha colpito di più.
Si compie concretamente un’azione che cambia il cuore e converte la vita. Ciò che si è meditato diventa ora vita!
Prego con la Liturgia delle Ore, l’ora canonica del giorno adatta al momento.
Concludo il momento di lectio recitando con calma la preghiera insegnataci da Gesù: Padre Nostro...
Arrivederci!
(spunti da sussidi delle Pontificie Opere Missionarie)